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La vita non conclude: il senso pirandelliano dell’esistere

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La vita non conclude: il senso pirandelliano dell’esistere

“La vita non conclude”: forse solo in questo modo è possibile riassumere la profonda riflessione che Luigi Pirandello svolge sulla Vita e che ritroviamo snocciolata in ogni sua opera. La citazione giunge da una delle opere più importanti dello scrittore siciliano: Uno, nessuno e centomila, datata 1925. Non solo un romanzo, ma anche, e soprattutto, la si potrebbe definire “summa” della concezione della vita dell’autore di Agrigento. Per capire appieno la forza di questa frase, in apparenza così semplice, bisogna ripercorrere tutta la poetica pirandelliana.

La riflessione, nonché l’opera di Pirandello, nascono e si sviluppano in un periodo dominato da varie correnti letterarie, le quali, nonostante le forti ascendenze che esercitano sul panorama culturale del tempo, soprattutto per quanto riguarda il culto della parola, non intaccheranno mai la poetica e la riflessione dello scrittore, che potremmo definire un preludio dell’esistenzialismo.

Il primo punto forte del pensiero di Pirandello, è nel netto contrasto che egli intuisce fra illusione e realtà: le illusioni si rivelano come qualcosa di irrealizzabile mentre la realtà, avvilente, si rivela profondamente inadeguata a quelle speranze. Secondo punto importante è l’umorismo, a cui lo scrittore dedica un saggio omonimo, datato 1908, definito da Pirandello come “sentimento  del contrario”: tralasciando gli esempi consueti, possiamo definire l’umorismo come un “momento di riflessione critica”, il quale deve accompagnare ogni nostra percezione, per far in modo che ogni nostra possibile illusione possa svanire, mettendo il luce il suo contrario. Senza questa riflessione, l’umorismo si risolve nel semplice “avvertimento del contrario”, che porta non più all’umorismo, ma al comico. Da queste riflessioni, Pirandello matura una forte spinta antiretorica (come già ricordato), che si riflette con forza nelle sue opere, imperniate su un linguaggio comune e comprensibile al pubblico, una tipologia di scrittura che rifiuta le sperimentazioni linguistiche e che sembra voler essere linguaggio delle cose più che delle parole. Ulteriore punto, importantissimo, è la constatazione dell’imprevedibilità, della casualità delle vicende umane, e di conseguenza la visione della vita come un continuo fluire, una sorta di fiume in piena che non può essere fermato in modo alcuno, o meglio, può rapprendersi in una forma che segna però il morire della vita stessa.

Da qui Pirandello sviluppa la sua poetica della “maschera”: ognuno di noi, desideroso di trovare la propria identità, si crea una maschera strappandola al perenne flusso vitale. Ma questa maschera non riguarda semplicemente la visione di sé, può essere anche una maschera di un concetto, di un ideale, nella quale cerchiamo di dare valore oggettivo alla nostra conoscenza, la quale, al pari della maschera-identità, si rivela fittizia. Inoltre la visione di noi stessi, irrigidita nella maschera, non è detto che sia in accordo con la visione che gli altri hanno di noi: è possibile che vi sia una visione diversa per ogni individuo che ci osserva o che ci conosce, in positivo oppure in negativo. Ma a questo punto il fatto di essere uno per noi stessi, centomila per gli altri, deve portarci a concludere che alla fine siamo nessuno, perché il vero flusso vitale non si chiude in nessuna forma. L’unico modo per sfuggire a ciò è immergersi nel flusso continuo della vita: “Albero, nuvola; domani libro o vento. La vita non conclude” come dice Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila.

Un ulteriore esempio di “gioco delle maschere” pirandelliano è nel racconto La Patente (portato sul grande schermo dall’immenso Totò), dove a prevalere è una finta giustizia a danno di una reale ingiustizia. La storia presenta una trama esile: a Rosario Chiarchiaro viene attribuito il potere di iettatore ed a causa di questa cattiva fama la sua vita viene rovinata. Chiarchiaro si presenta in tribunale desideroso di farsi riconoscere ufficialmente come iettatore, infatti, solo in questo modo potrà guadagnarsi da vivere, perché tutti, per evitare iettature,  saranno costretti a pagargli una piccola somma.

In primo luogo, possiamo osservare come le relazioni tra gli individui siano sempre più alterate a causa dei preconcetti e dei giudizi superficiali. Soprattutto in questa novella, bisogna notare la denuncia del fatto che per sopravvivere, o almeno per illudersi di vivere, l’uomo deve immedesimarsi nelle maschere che vengono plasmate dalla gente che lo circonda, dalle quali non si può sottrarre, anche perché, creata la maschera, il pregiudizio della massa ha il sopravvento: così la personalità dell’individuo giunge alla dissolvenza totale. Inoltre Chiarchiaro mostra un esempio di reazione umoristica alla maschera: gli viene attribuita una maschera, egli non si rassegna all’evento, ma alla fine la accetta con atteggiamento umoristico.

La Patente sembra cogliere un elemento dominante nell’uomo di quei tempi, l’incertezza derivante dai grandi cambiamenti in atto: probabilmente, a distanza di quasi un secolo, le “regole del gioco” attuali non sono poi così tanto diverse da quelle dei tempi di Pirandello.

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Laureato in Lettere, curriculum Pubblicistica, il 25 maggio 2010 e poi in Filologia Moderna il 13 marzo 2013, Gerardo inizia la sua collaborazione con ZerOttoNove nel giugno 2013 occupandosi della cronaca e delle vicende politiche di Calvanico (sua cittadina di residenza), trattando dei più svariati eventi e curando la rubrica CanZONando che propone, di volta in volta, l'attenta e puntuale analisi dei migliori brani della storia della musica. Ex caporedattore di ZerOttoNove.it e di ZON.it, WordPress & SEO specialist, operatore video e addetto al montaggio (in casi estremi), Gerardo ha molteplici interessi che spaziano dallo sport alla letteratura, dalla politica alla musica all'associazionismo. Attualmente svolge l'attività di docente, scrittore e giornalista pubblicista.