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Tragedia a Lampedusa: quando l’ignoranza diventa irriverenza

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Tragedia a Lampedusa: quando l’ignoranza diventa irriverenza

Lutto nazionale per ‘persone’ che se non fossero morte avrebbero stuprato, ucciso o preso per culo noi italiani? ma andate a ***, spero che su Gta ci siano i rom così li posso uccidere tutti finché non mi prende fuoco la tv”, alla vista di questo post sul social network facebook (con numerosi ‘mi piace’ di assenso) mi si è letteralmente gelato il cuore, e ho deciso di dire la mia, non tanto sullo svolgersi della tragedia avvenuta a Lampedusa due giorni fa (di cui si è ampiamente occupata la stampa), ma sull’ignoranza che ha accompagnato commenti e riflessioni sull’accaduto.

Più della diversità razziale è l’ignoranza a determinare la differenza tra gli esseri umani, rendendo squallidi tutti quei prepotenti che ergono la propria cittadinanza italiana a sinonimo di superiorità, usandola come mezzo per giustificare il proprio odio e l’ossessiva denigrazione ai danni di chi non la possiede. E’ triste osservare con quanta superficialità e negligenza queste persone hanno obliato il passato della nostra nazione, dei nostri antenati, del nostro vero cuore. Milioni di italiani costretti nel corso di vari secoli ad emigrare dall’Italia per cercare fortuna, per ricongiungersi ai propri familiari, per sfuggire alla disperazione. E la disperazione non nasce da vani sogni di gloria, ma da un presente negato nelle sue più piccole necessità, da un futuro bloccato nell’incertezza, nella paura, nell’ansia di non riuscire ad arrivarci vivi. Chi è partito con una valigia carica solo di umili speranze, sapeva da cosa stava scappando, ma ignorava il luogo e il contesto in cui sarebbe stata scaraventata la sua vita. E se l’accoglienza non determina la riuscita personale, fa comunque tanto. Fa tanto sentirsi accettati, avere l’aiuto necessario per potersi esprimere, per guadagnarsi i mezzi di sussistenza, per aiutare economicamente i propri familiari prima che se stessi, per non smettere di sentirsi uomini.

Noi eravamo quello che oggi sono loro: quanti dei nostri nonni ci hanno raccontato con la commozione negli occhi e con il tremore mai sopito del tutto delle mani, il terrore di quei momenti, le difficoltà dell’adattamento, la ricerca forsennata di una sistemazione lavorativa, la vergogna nel subire gli insulti, nell’essere additati come ‘diversi’, la speranza di poter un giorno far ritorno nel paese di origine dove avevano lasciato ricordi ed affetti immutabili, la cui assenza e lontananza non poteva essere colmata da nessuna forma di comprensione. Lavori spesso umilianti, sfruttamento, sacrifici enormi come la pazienza e la forza che li hanno spinti a non mollare, a stringere i denti, ad essere coraggiosi nei momenti più impensati.

Noi eravamo quello che oggi sono loro: persone, (sì, persone), che hanno scelto l’unica alternativa al nulla, alla povertà più totale, al futuro mutilato, alla morte che li avrebbe investiti in ogni caso se non fossero saliti su quel barcone, ignari di tutto quello che li avrebbe attesi, ma consapevoli del rischio che ogni scelta disperata comporta. Alle loro esistenze negate è stato offerto solo il miraggio di una vita degna di essere chiamata tale, senza necessariamente scatenare in essi il desiderio di ammazzarci, violentarci o derubarci della nostra presunta identità. I criminali esistono, e probabilmente in condizioni complesse il loro numero aumenta, ma davvero noi italiani possiamo vantare tutta questa onestà? E allora la mafia? Davvero credete che questo male sia circoscritto a pochi uomini corrotti nel territorio italiano, o che una figura come Al Capone sia frutto di una leggenda metropolitana?

Noi eravamo quello che oggi sono loro: vittime, vittime di una vita che non dosa mai concessioni e privazioni, penalizzando fino all’inenarrabile quanti hanno avuto l’unica colpa di nascere nel posto e nel momento sbagliato, senza che sia stata optata nessuna selezione di razza, colore, lingua o cultura. Non solo.

Noi eravamo quello che oggi sono loro e forse lo ridiventeremo: la cosiddetta “fuga dei cervelli” non è un banale modo di dire, ma rappresenta la reale evasione di giovani laureati italiani avviliti dalla crisi, che si recano all’estero accontentandosi di mestieri umili che spesso coprono di inutilità anni di studio e rinunce. La mancanza di occupazione in Italia spinge continuamente un numero considerevole di ragazzi a un ridimensionamento delle proprie prospettive di realizzazione personale e professionale, costringendoli a scappare da una società che stenta a riconoscere e porre rimedio ai suoi problemi, limitandosi a tamponarli o ignorarli.

Noi siamo e saremo quello che ci impegneremo a diventare, uscendo da schemi mentali ottusi e aprendoci a nuove possibilità, a un modo più giusto di affrontare l’immigrazione e l’integrazione, attraverso un dialogo reciproco e produttivo, che tenga conto delle diversità solo per valicarle, e non per cedere a stupidi pregiudizi e crudeltà gratuite. La punizione di eventuali errori non spetta a noi cittadini, ma alle istituzioni, che in virtù di questo ennesimo dramma dovrebbero muoversi verso una linea meno contraddittoria, in modo da evitare che episodi simili possano ripetersi. Tutti pronti a gridare “all’orrore e alla vergogna” a tragedia avvenuta, ma nessuno che si sia preoccupato di prevenire una disgrazia di tali dimensioni. Intanto sale a 111 la stima provvisoria dei morti, morti migrando, numerati come carcasse all’interno di sacchi colorati, annegati nel mare della speranza, inghiottiti da un’illusione, l’unica e purtroppo anche l’ultima.