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Premio “Impresa etica” a Pertosa: la sensibilità del far bene, prima del saper fare

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Premio “Impresa etica” a Pertosa: la sensibilità del far bene, prima del saper fare

Si è svolto sabato 21 settembre, a Pertosa, l’ottava edizione del Premio “Impresa etica”, il convegno dedicato alle questioni di sicurezza sul lavoro e lavoro nero. Un pomeriggio intenso, che ha visto lo sviluppo di un dibattito delicato, intermezzato da momenti di musica e letture (protagonista Eugenio Montale) da cui scaturiscono riflessioni sul tema “particolare e generale” del lavoro.

Se questi erano i presupposti dell’evento, a fine giornata il quadro generale evidenziato agli occhi del pubblico e degli stessi relatori è la rappresentazione di una forte preoccupazione in termini di sicurezza, prevenzione, incidenti, flessibilità, precarietà, ma soprattutto identità.

L’organizzatore dell’evento, Enzo Faenza (Consigliere comunale delegato alla Politica del Lavoro), ha inaugurato il convegno definendo la suprema importanza dell’azione sulla parola; quasi a sottolineare quell’ipocrisia generalizzata della politica del fare, estesa anche in campo etico ed interpersonale.

Di varia natura sono state le figure presenti al dibattito, ognuna rappresentante di una diversa categoria professionale di appartenerza. Dalla ricercatrice e docente universitaria di Sociologia del lavoro, Grazia Moffa (in rappresentanza del Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno), alla neo Segretaria provinciale della CGIL di Salerno Maria Di Serio; passando per l’ex operaio della famosa THYSSENKRUPP di Torino e Deputato PD, Antonio Boccuzzi, fino ad un giovane sociologo esperto in formazione, Fabio Esposito, portavoce di coloro che, troppo spesso, hanno ben poco a che fare con i tavoloni dei convegni, dove la demagogia non lascia spazio a sensazioni di malessere palpabili.

La giornata si è aperta con un filmato, in memoria delle due giovani operaie morte nell’incendio di uno scantinato, dove lavoravano per pochi euro al giorno. Parlare quindi di “morti bianche” è risultato difficile ma allo stesso tempo assurdo.

La dottoressa Moffa, su questo, ha parlato chiaro: “Non possono essere chiamate tali; gli incidenti sul lavoro hanno dei responsabili, persone che dovrebbero lavorare per evitarli e prevenirli. Quindi non si può neanche parlare di incidenti”. La questione, quindi, è anche di definizione.

La Segretaria CGIL Maria Di Serio ha descritto l’impossibilità di spiegarsi perché esistano così tante morti sul lavoro, problema che persiste anche quando si conoscono i diretti responsabili: “E’ una sorta di malessere insito nello stesso sistema italiano del lavoro”, afferma. Il subdolo esempio è rintracciabile nei grandi numeri delle nuove partite IVA, per lo più persone costrette ad aprirla per proseguire le collaborazioni a progetto. È anche il caso di manovali immigrati di cantieri, costretti alla partita IVA come condizione necessaria per continuare a lavorare, inconsapevoli che questo significa anche essere totalmente responsabile della propria sicurezza sul lavoro: “Le morti bianche, quindi, sono bianche perché è bianca l’innocenza di chi muore, contro il nero della loro morte di chi invece l’ha voluta”.

È una questione di etica che viene prima di ogni cosa, e che sembra mancare prima di ogni altra cosa, come precisa la Di Serio. “La noncuranza dell’etica sul lavoro e della sicurezza come diritto, e quindi della legalità, sta rischiando di cambiare i termini di riferimento, definendo il lavoro solo come guadagno e produzione”.

Il deputato PD Antonio Boccuzzi ha accusato la politica, senza distinzioni, che ancora non si occupa del tema, e ha continuato affermando che: “Non è lecito accanirsi contro gli imprenditori; è giusto però punire quelli che, come l’amministratore delegato della THYSSEN, credono nella fabbrica solo in termini di profitto e produzione, senza considerare che il vero profitto si ottiene grazie alle persone che lo creano”.

Si è sottolineata l’importanza dei dati, per circoscrivere il problema e il campo d’azione, e l’azione successiva derivata dall’analisi critica dei risultati. Se in termini scientifici questo risulta necessario, la pragmaticità di un ex-operaio quale Boccuzzi si è fatta notare, quando ha affermato che i dati INAIL sulla sicurezza sono in netto miglioramento: “Ma è anche vero che ci sono meno persone che lavorano, o in cassa integrazione, e un lavoratore che non lavora non può infortunarsi sul lavoro”. E parlando ancora di dati sensibili ha continuato: “In Italia i tecnici della prevenzione sul lavoro sono 1850 per 5.000.000 di aziende da controllare. Ciò significa che un’azienda ha il rischio di essere controllata una volta ogni 33 anni. Di lavoro si muore perché di precariato si vive”.

Tutti i temi trattati nel convegno confluivano in quello cardine della precarietà e della troppa flessibilità. È come un cane che si morde la coda. L’etica della sicurezza sul lavoro è direttamente proporzionale all’importanza che il lavoro possiede in termini vitali. Meno lavoro significa meno cura per l’essenziale, che porta all’anarchia etica dove vince il pescecane.

La dottoressa Moffa, riprendendo il suo testo La resistibile ascesa del lavoro flessibile, ha descritto il fatto fondamentale che il senso e il peso di non sapere cosa accade domani incide nella prestazione vitale. Rispetto a questa questione fondamentale ha citato un verso storico di Ungaretti, che sembra ricadere in testa e rimbalzare addosso modellando in parole sensazioni perenni: si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.

La verità è che oggi il sistema nega la sicurezza di vita, ed ha portato a una perdita di identità. Se negli anni ’70 il lavoro era la base sulla quale poter costruire una vita, oggi la flessibilità si può anche scegliere, ma la precarietà cui è strettamente collegata non permette di considerare il lavoro come base di nulla. La frase “io sono…” quasi sempre resta isolata, impossibile da continuare perché impossibile da definire l’apporto lavorativo alla comunità, e quindi il ruolo all’interno di essa.

Il giovane sociologo Fabio Esposito è stato il simbolo di questa rotta generalizzata del lavoro flessibile, e nel suo intervento ha fatto sentire tutta la volontà e la frustrazione di chi riesce a svolgere mille lavori, ma non si sente parte fondamentale di nessuna realtà. Il suo appello era fondato sull’esperienza diretta di ciò che molti affermano, osservando: “La produttività strangola la vita del singolo, la sua forma di pensiero e di azione. Noi precari non distinguiamo il tempo della vita da quello del lavoro, e finiamo per confondere tutto, autodistruggendoci in nome di un obiettivo che sembra distanziarsi ad ogni passo”.

Il suo è stato un appello a quelle istituzioni che hanno prima il dovere di formare il cittadino, poi di accogliere il lavoratore, e infine accompagnare l’individuo. “È impossibile avere oggi fiducia e speranza nelle istituzioni e nella politica se queste continuano ad essere autoreferenziali, se continuano a basare le loro poche azioni in funzione di un mondo immaginato, ma lontano dal reale”. L’appello da figlio, da professionista e da “lavoratore flessibile” era rivolto alla necessità e alla difficoltà di trovare chi accompagna e crede nella figura del giovane lavoratore, di colui al quale dovrebbe essere affidato il futuro di un Paese.

Il convegno si è concluso con l’assegnazione del Premio all’Impresa etica 2013, consegnato all’imprenditore Marcello Fasano, che ringraziando ha affermato: “Non è ricchezza, quella prodotta con la morte dei dipendenti; è ricchezza quella prodotta nel rispetto degli altri”. Parole che risuonano come un eco lontano, a testimonianza del fatto che oltre le vittime, i precari, e i lavoratori irregolari, chi subisce le conseguenze di tutto questo è anche l’imprenditore che fa dell’etica la base del suo lavoro.

Alfonso D’Urso

 

Si risolve ben poco

Con la mitraglia e col nerbo.

L’ipotesi che tutto sia un bisticcio,

uno scambio di sillabe è la più attendibile.

Non per nulla in principio era il Verbo.

_ Eugenio Montale