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Memorie del sottosuolo 150 anni dopo

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Memorie del sottosuolo 150 anni dopo

Il resoconto dettagliato di una spietata analisi dell’animo umano, in questo modo si potrebbe definire Memorie del sottosuolo, il celebre romanzo di Dostoevskij che prepara la strada alle grandi opere successive

“Sono un uomo malato… Sono un uomo maligno. Non sono un uomemorie del sottosuolomo attraente”: così inizia Memorie del sottosuolo, uno dei romanzi più brevi e intensi del grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij e, sebbene siano trascorsi centocinquant’anni dal 1864, anno in cui l’opera fu pubblicata, quello scavare gallerie in se stesso del protagonista non perde ancora la sua attualità. A leggere questo romanzo viene da pensare che, dopo tutto, nell’animo umano vi sia davvero qualcosa che assomigli a un fondo immutabile.

Potrebbe ricordare il protagonista di un altro dei romanzi di Dostoevskij, il sognatore de Le notti bianche, questo narratore del sottosuolo che ha trascorso la vita nel suo angolo, tra libri e imponenti costruzioni della mente, e che in quello stesso angolo, viene ricacciato ogni qualvolta tenti di allontanarsene. Memorie del sottosuolo, tuttavia, appartiene a una categoria differente, in esso prevale una crudezza ineguagliabile, capace di affondare negli anfratti più scomodi della coscienza umana; il protagonista dell’opera non ha più la timidezza del sognatore innamorato de Le notti bianche né possiede ancora l’ingenuità spiazzante della figura centrale de L’Idiota.

Tutta la prima parte di Memorie del sottosuolo è un’attenta e intransigente autoanalisi del protagonista che giunge a identificare la coscienza di sé con una forma di malattia, una malattia che paralizza perché capace di disintegrare il presupposto di ogni azione: l’io. Questa di Dostoevskij è una risposta a Freud ben prima di Freud: la coscienza delle proprie meschinità non guarisce, non libera.

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La seconda parte dell’opera è la dimostrazione pratica di quanto concluso nella prima. Ogni azione che possa costituire un’apertura al mondo esterno da parte del protagonista è prontamente e bruscamente interrotta da un sovraccarico di riflessioni, per poi essere ricondotta, inesorabilmente, alla radicale bassezza della natura umana.

Parla come un libro stampato il personaggio di Dostoevskij, crede e spera all’inizio di ogni interazione con l’altro in virtù dei buoni sentimenti inculcatigli dalle sue letture, ma un attimo dopo questa sua predisposizione è spazzata via dalla chiara consapevolezza della vile origine di ogni istinto sociale.

“Una volta, non so come, avevo avuto anche un amico. Ma ero già un despota nell’animo; volevo dominare illimitatamente sull’animo di lui”. E ancora: “Amare per me ha sempre voluto dire tiranneggiare e avere una superiorità morale”.

Volontà di dominio: questo è ciò che, in ultima analisi, è l’uomo del sottosuolo nella sua essenza. Volontà di prevalere: questo è il fondo dell’animo umano che Dostoevskij chirurgicamente seziona ed espone in Memorie del sottosuolo.