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L’impiegato pubblico che usa il telefono di servizio commette reato? La sentenza della Corte di Cassazione

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L’impiegato pubblico che usa il telefono di servizio commette reato? La sentenza della Corte di Cassazione

L’impiegato pubblico, che telefoni o acceda a internet dal cellulare di servizio per motivi personali, non commette reato se non è consapevole della tariffazione a consumo associata all’apparecchio assegnatogli.  Questa la sentenza della Corte di Cassazione (Sez. VI Penale, Sent. n. 26297/2017)

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A cura dell’ Avv. Luca Monaco, del Foro di Salerno

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, è tornata a occuparsi della configurabilità del delitto di peculato d’uso, ex art. 314 comma 2 c.p., in capo al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio ovvero l’impiegato pubblico, che utilizzi il computer dell’ufficio o il telefono cellulare in dotazione per finalità non inerenti ai propri doveri istituzionali e in assenza di ragioni di urgenza o di specifiche autorizzazioni.

Nel caso di specie, tuttavia, il Collegio di legittimità ha affrontato la questione anche sotto il profilo della fattispecie soggettiva del reato. Orbene, il Procuratore Generale proponeva ricorso per cassazione avverso una sentenza assolutoria, emessa dalla Corte di Appello di Torino, nei confronti dell’addetto stampa di un ente, che aveva utilizzato in maniera illegittima, per fini personali, l’utenza telefonica assegnatagli per ragioni di servizio, procurando un ingente danno economico alla Pubblica Amministrazione, pari a circa 30.000 euro.

La Corte territoriale aveva motivato le proprie determinazioni alla stregua, tra le altre, della considerazione per cui non fosse emersa in giudizio la conoscenza in capo all’imputato del tipo di tariffazione, nella specie a consumo, associata all’utenza telefonica assegnatagli. Il ricorrente contestava l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata, evidenziando che la configurabilità del reato di peculato d’uso è consequenziale all’uso personale del bene, non rilevando il tipo di tariffazione prescelta dall’ente. La Suprema Corte rigettava il ricorso della Procura Generale in ossequio a un pregresso e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Secondo il Collegio degli Ermellini, infatti, affinché si configuri l’ipotesi delittuosa in discorso, è necessario che l’uso illegittimo del telefono di servizio da parte del pubblico dipendente produca un danno apprezzabile al patrimonio della P.A.. Di talché, nell’ipotesi in cui l’ente abbia stipulato con il gestore telefonico o del servizio di internet un tipo di abbonamento con tariffazione forfettaria (“flat”), in base al quale lo stesso paghi una somma fissa mensile, indipendentemente dal numero di telefonate effettuate o dalla durata delle connessioni a internet eseguite, sarebbe del tutto indifferente per la P.A., sotto il profilo economico, l’utilizzo improprio che il dipendente faccia dell’apparecchio assegnatogli.

Orbene, nel caso che ci occupa, l’amministrazione aveva stipulato un tipo di contratto a consumo, con la conseguenza che si era vista addebitare costi considerevoli, derivanti dalle connessioni a internet e dalle telefonate effettuate dall’imputato per ragioni non istituzionali. Tuttavia, non era emersa in corso di giudizio la conoscenza (né la conoscibilità) in capo a quest’ultimo del tipo di tariffazione cosiddetta “bundle”, ovvero a consumo, associata all’utenza a lui assegnata, invece di un più usuale abbonamento “flat”. Per questo motivo, in uno ad altre considerazioni, pure postulate in sentenza, la Suprema Corte rigettava il ricorso e assolveva l’imputato.

 

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