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Non è un Paese per Vecchi

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Non è un Paese per Vecchi. Editoriale a cura di Danilo Iammancino

 

[ads2] La linea di demarcazione che divide la protesta dalla sommossa è sottile. Da quando il mondo è mondo le rivoluzioni non sono mai state pacifiche, che tradotto “all’italiana” il piatto comincia a mancare a tavola.

 

Proprio nel momento in cui Renzi tira dritto verso “le sue” riforme, ecco che i sindacati “inascoltati” sguainano l’unica arma da sempre utilizzata nei tavoli di contrattazione: sciopero generale. Un film visto e rivisto nel teatrino della politica italiana, tale da suscitare nella maggior parte di noi una reazione fantozziana all’ennesimo film dell’Armata Potëmkin.

Non è un paese per vecchi
foto ansa

Il giorno dello sciopero sociale e cortei in 25 città italiane coincide con la sfida della Fiom e della Cgil a quello che sarebbe dovuto essere il loro partito di riferimento il Pd.  Dalla manifestazione di Milano, che ha gremito piazza Duomo: hanno partecipato 80mila persone. Ma la giornata delle proteste, con decine di migliaia di persone in piazza, è anche un altro capitolo dell’atmosfera di tensione sociale: scontri tra studenti e antagonisti da una parte e forze dell’ordine dall’altra si sono verificati a Milano e a Padova causando 10 feriti tra i giovani e altri 8 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri. Tensione anche a Roma, ma senza feriti (almeno per ora): fumogeni e uova sono state lanciate prima contro la sede del Ministero dell’Economia e poi contro l’ambasciata tedesca. Fiom, Cobas, sindacati di base, organizzazioni studentesche, precari e attivisti dei centri sociali sono scesi in strada da Torino a Palermo contro le politiche di austerità della UE e del governo Renzi, contro il Jobs Act e l’abolizione dell’articolo 18. Ma anche per l’assuzione dei precari della scuola. A Napoli i manifestanti hanno bloccato per alcune ore la tangenziale, a Roma“blitz” pacifici sono avvenuti nella sede dell’Acea e al Policlinico Umberto I, mentre una trentina di lavoratori sono saliti sulle impalcature del Colosseo.

Che la pancia dei politici fosse piena questo è ormai assodato da tempo, ma ciò che ci stupisce  è che quella dei sindacati fosse vuota.

Ma cosa sono veramente i sindacati? Da sempre artefici della protezione di chi un posto di lavoro già lo tiene, incuranti di chi invece deve conquistarselo scendono frettolosi in piazza per manifestare sull’unico punto cardine che li tiene ammassati: l’articolo 18.

Una sera come le altre, mentre tornavo a casa da una lunghissima giornata lavorativa, mi imbattei in un servizio  di “Piazza Pulita” programma diretto da Corrado Formigli. A scendere in Piazza era la CGIL, si sfilava per le strade di Roma. Vessilli, bandiere sventolanti al vento e fischietti la facevano da padrone. Mentre il corteo proseguiva, ai lati delle strade bar, esercizi commerciali ed hotel erano pieni di lavoratori a nero e senza contratto. Un paradosso temporale degno del miglior Futurama.

Parliamoci chiaro: l’esistenza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori c’entra quasi niente col fatto che in Italia abbiamo una disoccupazione record. Oggi le aziende chiudono per mancanza di commesse e il costo del lavoro è alle stelle.

E quando si chiude non c’è articolo 18 che tenga: chi è assunto a tempo indeterminato va a casa come tutti gli altri. Quanto alla mitica “flessibilità in entrata”, le (poche) imprese che vorrebbero di questi tempi allargarsi possono pescare fra oltre 140 tipi di contratto diversi che consentono di prendere lavoratori, spremerli ben bene e infine mandarli via come i migliori “usa e getta” del mercato. Un breve elenco: cococo, cocopro, finte partite Iva, apprendisti, stagisti, precari a ore.

Giovani, studenti, laureati di una nuova generazione a cui è stato estirpato con forza un sogno di realizzazione, a cui è stata impiantata una valigia in mano per l’espatrio, che lo Statuto dei lavoratori non sa neanche cosa sia e baratterebbe volentieri l’articolo 18 con uno stipendio e un trattamento appena dignitoso.

non è un paese per vecchi
Vignetta di Dario Levi

Oggi noi “bamboccioni” siamo abituati alla visione di due Italie: quella dei blindati e inamovibili lavoratori assunti a tempo indeterminato e quella dei precari senza futuro dall’altra. Chi viaggia in in prima classe con possibilità di accedere ad un mutuo, sposarsi e fare progetti e chi viaggia in seconda e naviga a vista e si gioca la vita ad ogni rinnovo di contratto, se contratto è posto in essere.

Ciò che non si è ancora intuito è che il treno è lo stesso e il tutto non è altro che un cane che si morde inesorabilmente la coda. La disoccupazione giovanile in Italia sfiora il 44,2%, gli ammortizzatori sociali sono stressatissimi e la maggior parte degli italiani vive usufruendo di pensioni e sussidi. Se i contributi non vengono versati il sistema entra nel caos e l’Inps (già con un buco enorme nei conti) non avrà più spazio di manovra.
Se abolire l’articolo 18 significa condannare questa diseguaglianza, io sono favorevole.

E qui entriamo nel punto nevralgico del concetto. Ma uno Stato che rende un lavoratore più facilmente licenziabile deve fornirgli anche i mezzi necessari a vivere quando non lavora: una casa, un reddito minimo, servizi gratuiti. Paesi europei seri quali la Danimarca e la Gran Betagna spendono decine di miliardi l’anno per questo. 

Mi avvio alle conclusioni. Per riuscire ad intuire ciò che specificatamente sta accadendo in Italia, bisognerebbe soffermarsi su un’analisi che parte da diversi aspetti legati all’economia mondiale per poi soffermarsi inesorabilmente al pantano politico sul quale siamo riversati ormai da troppo tempo. Un’arretratezza frutto del nostro “menefreghismo politico” che ci ha visto per troppi anni Ponzio Pilato di un “BelPaese sempre più per vecchi” alla faccia dei fratelli Coen.