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Madre detenuta per gravi reati: domiciliari

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Madre detenuta per gravi reati: domiciliari

La Consulta ha dichiarato legittimi i domiciliari alla madre detenuta per gravi reati, anche se non collabora con la giustizia, per tutelare i figli

[ads2] La Corte Costituzionale, con sentenza del 22.10.2014, n° 239, ha riconosciuto il diritto alla concessione della misura della detenzione domiciliare anche alle madri detenute per gravi reati, ancorché indisponibili a collaborare con la giustizia, per consentire ai figli d’instaurare un miglior rapporto con loro. La Consulta ha seguito un ragionamento di particolare pregio, e in effetti da decenni le madri carcerate scontano pene intramurarie potendo beneficiare del diritto di stare con i propri figli anche all’interno degli istituti di pena, come dispone l’articolo 11 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. In particolare, l’articolo 11 della stessa legge prevede che “Alle madri è consentito di tenere presso di sé (in carcere) i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido”.

Ora, nella medesima legge, l’articolo 21-bis, “Assistenza all’esterno dei figli minori”, comma 1, prevede che “Le condannate e le internate possono essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci…”, in ossequio al compito della Repubblica di proteggere l’infanzia, “Favorendo gli istituti necessari a tale scopo” (articolo 31 Cost.). Il problema è che, però, atteso che le strutture esterne sono insufficienti o inadeguate perché ad esempio le “Case famiglie protette ove istituite” in realtà mancano o perché le stesse sono carenti di posti disponibili, i bimbi sono spesso obbligati a restare all’interno del carcere ben oltre il limite degli anni 3, tanto che si parla di “Carcerizzazione degli infanti” come accaduto anche nel caso in questione – in quanto la cognata della detenuta, come se non bastasse, ha fatto ricorso per ottenere l’affidamento del bimbo ottenendo per ora solo ulteriori lungaggini processuali che hanno portato lo stesso minore a restare in carcere (!) – e, ciò, è umanamente inaccettabile per la serena crescita psico-fisica di un bambino.

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Da decenni i bimbi delle madri carcerate restano rinchiusi oltre il limite d’età (anni 3) previsto dalla legge. In Italia mancano sufficienti strutture adeguate ad accogliere i bimbi e le madri fuori del carcere

Il fenomeno è alquanto delicato perché attiene al giusto e naturale trattamento dei piccoli di crescere anche con l’affetto della propria madre, diritto che allo stesso tempo si scontra con l’interesse pubblico dello Stato nella punizione di gravi reati che, in quanto tali, possono riguardare terrorismo, associazione di stampo mafioso, prostituzione e pornografia minorile, tratta di schiavi, violenza sessuale di gruppo e sequestro di persona, narcotraffico internazionale ecc., reati anche detti più in generale di grave allarme sociale. Nel caso posto all’attenzione dell’Ecc.mo Collegio, la madre nigeriana è stata condannata a nove anni e mesi sei di reclusione per aver commesso proprio uno di questi reati ossia quelli di mantenimento in schiavitù e tratta di persone come prescritti dagli articoli 600 e 601 del codice penale.

In sintesi, con questa novella, la Corte ha ritenuto di far prevalere l’interesse umano del minore di poter intessere un rapporto con la propria madre rispetto a quello pubblico di restrizione della libertà personale anche se in tema di gravi reati. La critica contraria potrebbe essere quella che, forse, il minore non dovrebbe essere affatto avvicinato a una persona colpevole di simili misfatti sebbene in rapporto di strettissima parentela, ma, a ciò, si può tranquillamente obiettare che le modalità con le quali lo stesso vi entra in contatto avvengono sotto il rigido controllo del sistema di assistenza sociale. È lo stesso sistema che, infatti, ha accesso i riflettori sul caso e fatto di riflesso sollevare la questione di legittimità costituzionale da parte del Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

La Corte Cost., a ogni buon conto, ha contribuito a raggirare la problematica della mancanza di strutture e posti – in Campania sono attualmente in costruzione specifici centri, cd. Istituti di custodia attenuata per detenute madri tesi a ricreare un ambiente prossimo a quello familiare – per concedere anche alle madri macchiatesi di gravi reati un atto umanitario in funzione del benessere dei figli innocenti.

L’importante pronunzia, in sostanza, parla dell’ingiustificato accostamento della situazione genitoriale al pregiudicabile futuro della prole, di bimbi come “soggetti terzi ed estranei” ai quali è assolutamente ingiusto negare un più sano sviluppo (all’esterno del carcere) grazie all’affetto della propria madre.

Facendo sempre salva la concreta pericolosità che la detenuta possa commettere altri delitti, a ben guardare, il beneficio potrebbe essere concesso nel caso in cui la condannata scegliesse di collaborare con la giustizia, ma, nel caso non fosse seguita tale possibilità, si configurerebbe lo stesso la violazione dei diritti del “soggetto debole” (il minore) come appunto individuato dai giudici di legittimità e, quindi, tale ricatto dello Stato è stato scongiurato appunto con la sentenza in argomento. Peraltro, non è detto che il contributo alla causa della giustizia potrebbe essere utile o rilevante quand’anche la detenuta decidesse di conferirlo.

L’Ecc.ma Corte, ordunque, in ossequio all’articolo 3 della Convenzione sui diritti del Fanciullo firmata a N.Y. nel 1989, ratificata in Italia nel ’91, e alla Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. del 2000, entrambe disposizioni che sottolineano l’interesse preminente del bambino a dispetto di tutte le decisioni adottate da organi pubblici o privati, ha affermato “Che […] assuma un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età ad instaurare un rapporto quanto più possibile ‘normale’ con la madre (o, eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo. Interesse che – oltre a chiamare in gioco l’art. 3 Cost., in rapporto all’esigenza di un trattamento differenziato – evoca gli ulteriori parametri costituzionali richiamati… (tutela della famiglia, diritto-dovere di educazione dei figli, protezione dell’infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.)”. Pertanto, l’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354/1975 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, in breve, esclude il beneficio della detenzione domiciliare prevista dagli articoli 47-ter, comma 1, lettere a) e b) e 47-quinquies della medesima legge. In sostanza, la Corte si è limitata a stabilire che, anche se non collaborano con la giustizia, le madri condannate per gravi reati possono essere ammesse al beneficio della detenzione domiciliare.

Sembrerebbe finita qui ma la Corte, nella lunga motivazione in fatto e in diritto dell’edotta sentenza, non si risparmia di segnalare un’altra stortura del sistema penitenziario, ovverosia quella per cui la detenzione domiciliare o altro beneficio alternativo alla detenzione per le madri non possono scattare se non dopo un determinato periodo di tempo di sconto della pena. Va da sé, che il bimbo potrebbe superare i dieci anni di età senza aver mai avuto al suo fianco la madre finanche quando quest’ultima abbia deciso di collaborare con la giustizia.