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Le investigazioni difensive

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Le investigazioni difensive

Le investigazioni difensive. Finalmente parità delle armi con la pubblica accusa?

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Per comprendere la ratio delle investigazioni difensive, è opportuno fare un breve cenno al valore che assume il “diritto di difesa” nel sistema processuale vigente.

Il diritto di difesa rappresenta in primis un diritto individuale. Risponde, infatti, ai criteri della moderna concezione penalistica: un soggetto accusato abbia diritto di difendersi. Il nostro sistema processuale mira all’accertamento circa la sussistenza di fatti che giustifichino l’applicazione di una pena; di conseguenza, chi tale pena dovrebbe subire (imputato/indagato), dovrebbe avere – almeno in linea di principio – un ruolo paritetico rispetto a chi ha interesse alla punizione (accusa).

Da non sottovalutare l’altro aspetto saliente del processo: funzione di garanzia del corretto accertamento giudiziale. Si ricorda brevemente che il processo non è un mezzo di ricerca di verità materiale e/o storica, perché: 1) è un fatto umano e dunque imperfetto; 2) la metodologia propria di ogni accertamento processuale è un’indagine ex post, sicché è inidonea a fornire conoscenze assolute ed incontestabili.

Non a caso è stato affermato che la decisione giudiziale non si fonda sui fatti ma sull’asserzione di essi. Il giudice, dunque, forma il proprio convincimento su affermazioni probatorie. E tali fatti saranno processualmente veri nella misura in cui risulteranno dimostrati. E i fatti saranno ritenuti processualmente dimostrati solo sulla base delle risultanze emerse nel contraddittorio delle parti: nella dialettica tra chi, avendo formulato un’accusa ha interesse a sostenerla (pubblico ministero) e chi, essendo di tale accusa il destinatario, ha interesse a confutarla (imputato attraverso il suo difensore).

È solo in questi termini possibile affermare che la prova non dà certezza in ordine all’esistenza di un fatto, ma fornisce al giudice il motivo per considerare credibile l’affermazione di una parte in ordine alla esistenza o inesistenza del medesimo.

Ecco che, quindi, in un sistema strutturalmente inidoneo a provare la “Verità”, il principio del contraddittorio assume massima importanza quale metodo di conoscenza ritenuto dal legislatore come il più idoneo ad assicurare l’accertamento dei fatti nel modo più corretto possibile. Di qui, l’osservanza di tale principio quale garanzia di un giusto processo.

E’ chiaro che in questa concezione del processo e in questa duplice funzione del diritto di difesa, solo chi ha pieno accesso alla prova dei fatti (o meglio alla prova sull’asserzione su determinati fatti) può affermare, in sede processuale, fatti principali e fatti probatori.

Ed in tale senso, solo fornendo alla difesa le possibilità di attingere al materiale probatorio alle stesse condizioni in cui ciò è riconosciuto all’accusa, è possibile realizzare una vera parità ed un vero contraddittorio.

Ma la parità sostanziale (e non meramente formale), tra accusa e difesa nella formazione della prova, si ha quando tali parti abbiano parità di accesso alle fonti di prova, cioè a quegli elementi che, reperiti o conosciuti in sede di indagini preliminari, diventano elementi conoscibili dal giudice in sede di giudizio attraverso i meccanismi dell’acquisizione probatoria.

In tal senso, le norme sulle investigazioni difensive, e la riforma dell’art. 111 Cost., hanno rappresentato una grande rivoluzione rispetto al sistema delineato in precedenza, consentendo al difensore, almeno (e, forse, solo) in linea di principio, di attingere al materiale probatorio con le stesse facoltà e gli stessi limiti del magstrato del pubblico ministero (salvo valutare le disponibilità di mezzi, non ultimo quelli economici).

Le fonti normative

 

Il riconoscimento dell’istituto delle investigazioni difensive ha la sua sedes materiae in diverse fonti normative.

 

  1. I) Principi costituzionali.

Lo strumento concettuale con il quale la nostra Costituzione intende attuare il nuovo processo penale è il cd.Giusto processo.

Tale concetto era già presente, anche se non dichiarato in termini espressi, nella Costituzione prima della riforma dell’art. 111 (l. cost. 2/1999).

La Costituzione del 1948, inserendosi in un impianto processuale proprio del regime totalitario, poneva un modello di processo penale caratterizzato dal cd. “garantismo inquisitorio” (= predisposizione di garanzie che controbilanciassero l’impronta inquisitoria del processo penale previsto dal Codice Rocco).

Con la riforma dell’art. 111 si è costituzionalizzato il modello accusatorio con l’introduzione del principio del cd. “giusto” processo.

Accanto, quindi, ai principi già introdotti dell’inviolabilità della difesa (art. 24) e della presunzione di non colpevolezza (art. 27) viene attuato il principio del giusto processo caratterizzato da: ragionevole durata e diritto dell’indagato a conoscere al più presto le imputazioni a suo carico; “parità delle armi” tra accusa e difesa davanti ad un giudice terzo e imparziale; diritto di disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la difesa; diritto di acquisire ogni mezzo di prova a favore dell’accusato nelle stesse condizioni dell’accusa; contraddittorio nella formazione della prova.

Riforma entrata a pieno regime il 6 aprile 2001 con il vigore della legge di attuazione del 111 Cost.

 

  1. II) Disciplina previgente alla legge n. 397/2000

Prima del c.p.p. Pisapia-Vassalli (e fatta eccezione per una felice parentesi del codice di procedura penale per il Regno d’Italia del 1807, in cui, secondo un’espressa previsione normativa «… i testi a discarico saranno interrogati dopo i testimoni a carico sulla base delle ricerche fatte dall’accusato o dal suo difensore». E la fugace esperienza del codice del 1913 di chiara impronta accusatoria), l’investigazione e la prova erano oggetto di un ferreo ed assoluto monopolio pubblico.

Gli investigatori privati potevano essere autorizzati a svolgere investigazioni limitatamente ai reati perseguibili a querela, nel solo caso in cui essa fosse stata proposta. Pena: l’incriminazione per usurpazionene di pubblica funzione.

Merita, però, essere ricordato lo sforzo, in dottrina, fatto da chi, preveggente e sensibile riformatore, già aveva intuitito l’esigenza di una necessità di introdurre le indagini del difensore. Il riferimento è all’autorevole Prof. Foschini, che quasi mezzo secolo fa, scriveva, circa l’indagine del difensore nel sistema processuale «… non solo non è in contrasto, ma anzi deve ritenersi doverosa da parte del difensore l’esplicazione di una attività istruttoria per proprio conto. Ciò sia perché la difesa non sarebbe libera se dovesse limitarsi alla valutazione degli elementi di prova ricercati o offerti dall’accusa, dovendo avere invece la possibilità di ricercare e indicare gli elementi che sorreggono la propria tesi o smentiscono quella dell’accusa, sia ancora per il carattere di autonomia che la funzione della difesa pubblica ha nei confronti di quella privata esplicata dall’imputato, sia infine come conseguenza e compensazione della quasi totale esclusione del difensore dalla istruttoria condotta dal pubblico ministero o dal giudice istruttore» (in Sistema del diritto processuale penale, 1965, I, p. 302).

L’attività del difensore era di natura confutativa: sulla base delle regole logiche doveva – e poteva – solo confutare la ricostruzione dei fatti descritta e dimostrata dal p.m.

Con il codice Vassalli fu gettato il seme di quelle che oggi rappresentano le attività del difensore.

Venne introdotto il diritto alla prova (art. 190 c.p.p.), inteso dalla dottrina come «il diritto dell’indagato/imputato di difendersi provando».

Si trattava, comunque, di una disciplina timida, retaggio della cultura inquisitoria propria del codice precedente.

Basti pensare che la regolamentazione dell’attività del difensore era prevista da disposizioni relegate nelle norme di attuazione e di coordinamento: art. 38 disp. att. (facoltà dei difensori per l’esercizio del diritto alla prova) e art. 222 disp. coord. (investigatori privati). In particolare, l’art. 38 disp. att. dava al difensore la facoltà di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e di conferire con le persone che potessero dare informazioni.

Tuttavia mancava una tipizzazione delle investigazioni difensive.

Nulla si diceva in merito alle modalità di acquisizione dei risultati dell’investigazione, della conservazione, della verbalizzazione e della valenza processuale degli stessi.

La giurisprudenza aveva, così, gioco facile nel depotenziarne la “spendibilità” processuale.

Nel 1995, per ovviare a qualche limite, fu predisposta una timida riforma della disciplina de qua. Si modificò l’art. 90 c.p.p., che si limitava a precisare la facoltà del difensore anche della persona offesa di presentare direttamente al giudice gli elementi che egli reputava rilevanti ai fini della decisione. Ma non vi era alcun cenno ad una regolamentazione delle modalità di acquisizione della prova e della sua utilizzabilità

processuale.

Tuttavia, tale riforma ebbe il pregio di introdurre nella cultura dei giudici e dei difensori un principio non più legato alla necessaria canalizzazione degli elementi di prova attraverso il pubblico ministero.

E, per la prima volta, si parlò di documentazione dell’attività d’indagine difensiva, non come documento in senso stretto (rappresentativo di un fatto), che si forma al di fuori del procedimento, ma come documento che rappresenta l’atto: atto che per la prima volta è inteso come atto del procedimento.

Rimaneva, comunque, inalterato il “monopolio investigativo” del p.m. ed il “diritto alla prova veniva riconosciuto al difensore in proiezione esclusivamente dibattimentale”.

Va osservato che la mancata tipizzazione delle investigazioni difensive rispondeva ad una precisa scelta del legislatore: al p.m. si attribuiva la funzione dinamica di organo propulsore dell’attività processuale, mentre al difensore veniva riconosciuta una funzione di controllo dell’operato del p.m., di garante dei diritti riconosciuti dalla legge all’imputato/indagato.

La giurisprudenza giustificava tale atteggiamento ricorrendo alla cosiddetta “presunzione di completezza” delle indagini preliminari prevista dall’art. 358 c.p.p. Tale norma, ponendo a carico del p.m. l’onere delle investigazioni anche a favore dell’imputato, sanciva di fatto il monopolio dell’attività investigativa in capo al Procuratore della Repubblica.

Il fondamento di tale obbligo veniva rinvenuto nella sua natura di “parte pubblica” ed in particolare di “parte imparziale” nella fase delle indagini preliminari: in tale fase agiva nell’interesse obiettivo dell’applicazione della legge penale (C. Cass., sezione feriale, 1992, Buffarato).

Non solo, la stessa giurisprudenza (C. Cass. . Sez. Il 1997, Nappa) riconosceva che il dovere di pluridirezionalità investigativa «non si traduce in un obbligo penalmente sanzionato e non toglie il carattere eminentemente discrezionale delle scelte investigative del p.m.».

Del resto, anche la Corte Costituzionale (Ord. 97/1997) affermava che tale obbligo non era finalizzato alla realizzazione della parità tra accusa e difesa, né alla garanzia dei diritti dell’imputato, ma era correlato alla esigenza di un ordinato svolgimento e formazione dell’indagine penale.

Lasciando al p.m. e alla p.g. la totale gestione delle indagini preliminari, la previsione del “diritto alla prova”, di cui all’art. 190 c.p.p., era riconosciuta in una proiezione (tendenzialmente) solo dibattimentale.

L’unica possibilità per il difensore di intervenire nella fase di indagini preliminari era rappresentata dall’art. 367 c.p.p.; passando cioè attraverso il p.m. che, potendo omettere di rispondere o negare le richieste del difensore, di fatto rimaneva signore delle indagini preliminari ed era filtro dell’attività del difensore.

Era chiaro che la posizione di vantaggio dell’accusa, in sede di acquisizione della prova, si ripercuoteva nel dibattimento, luogo deputato alla formazione della prova. Come poteva il difensore legittimamente contraddire in condizioni di parità con l’accusa se non aveva possibilità di reperire egli stesso le fonti di prova utili (?), se la sua attività si limitava ex art. 367 ad un suggerimento al p.m. che in ogni caso godeva di ampi margini di discrezionalità.

È in quel clima, e nel tentativo di dare riconoscimento concreto alla cosiddetta “parità delle armi” tra accusa e difesa, che con la legge n. 397/2000 s’introduce una disciplina organica delle investigazioni difensive, tipizzando le attività di indagine e le modalità con cui devono essere poste in essere da parte del difensore.

Viene valorizzato quell’aspetto del diritto di difesa che, come detto sopra, rappresenta il mezzo per realizzare un corretto accertamento giudiziale attraverso l’attuazione del principio del contraddittorio.

In tal senso il ruolo del difensore non è più solo quello del fine oratore che confuta, con argomentazioni di natura meramente logico formale la tesi accusatoria, ma diviene egli stesso soggetto dell’attività di indagine inerente all’esercizio della difesa penale.

La norma cardine è rappresentata dall’art. 327 bis c.p.p. che sancisce il diritto, del difensore nominato, di svolgere investigazioni «per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito».

Tale norma, per efficacia sistematica, è opportunamente collocata tra gli art. 326-327 c.p.p., relativi alle indagini preliminari del p.m., e l’art. 328 relativo al g.i.p.: il difensore diviene attore delle indagini preliminari insieme ai magistrati.

Non a caso si è parlato di una “funzione assertiva” del difensore penale.

S’impone un ruolo attivo al difensore penale, non più statico e limitato alla demolizione dell’atto d’indagine dell’accusa, ma egli stesso ricercatore della fonte di prova.

Il diritto, o forse la facoltà, di investigare in molti casi potrebbe diventare un dovere, anche giuridico, rientrante nel dovere di difesa: in caso d’inerzia, che sia fonte di danno per il cliente, o in caso di manipolazione o inquinamento delle prove, o di altre infedeltà, potrebbe profilarsi per il difensore la responsabilità disciplinare, civile ed anche penale.

Però, non si può certo pensare che occorra sempre e comunque procurarsi la prova dell’innocenza: non si deve mai dimenticare che è sempre onere dell’accusa provare la responsabilità dell’accusato. Ragionando in senso inverso, si rischierebbe di insinuare nel sistema una sostanziale inversione dell’onere della prova, con il rischio di far rientrare il sistema inquisitorio sotto mutate vesti.

Se l’accusa è congenitamente debole, rimane comunque inidonea a fondare una condanna (al di là di ogni ragionevole dubbio) indipendentemente dalle allegazioni probatorie del difensore.

E’ evidente, dunque, la volontà del legislatore di creare un parallelismo fra le indagini dei difensori e le indagini del p.m..

Tuttavia l’intera disciplina sconta un vizio di fondo.

L’attività posta in essere dal p.m. è pur sempre un’attività concepita al fine di realizzare l’interesse pubblico al corretto esercizio dell’azione penale (non a caso l’obbligo per il p.m. di ricercare elementi a favore dell’indagato permane, pur con i limiti che sono sempre stati propri).

Per converso, la facoltà del difensore di attivarsi fin dalla fase iniziale del procedimento è contenuta nelle forme e con le finalità stabilite dalla legge, ed in particolare quella della ricerca di elementi a favore del proprio assistito.

Non a caso la rubrica chiama “investigazioni difensive” quelle condotte dal difensore per distinguerle dalle “indagini preliminari” che sono dirette dal pubblico ministero.

In tal senso discussioni si sono aperte circa la natura privatistica ovvero pubblicistica delle attività investigative del difensore.

In linea di principio si dovrebbe dire che l’attività investigativa del difensore rimane attività privata di pubblica necessità.

Le indagini del p.m. assolvono ad una funzione pubblicistica di accertamento di responsabilità penali nell’interesse della collettività lesa dal reato.

Le investigazioni del difensore assolvono ad una funzione privata, che trae origine da un rapporto contrattuale tra cliente e avvocato, il cui ruolo è quello di curarne gli interessi.

La ricerca e l’individuazione degli elementi di prova a favore del proprio assistito (art. 327 bis) mal si concilia con la necessaria imparzialità di chi ricopre il ruolo di pubblico ufficiale.

Tuttavia le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 32009/2006 hanno riconosciuto la qualifica di pubblico ufficiale al difensore nella fase di verbalizzazione di cui all’art. 391 bis. Per vero, dovere di correttezza e lealtà nella completezza della verbalizzazione che non nasce solo a pena di sanzione penale – falso ideologico in atto pubblico ed eventuale favoreggiamento personale – ma in virtù degli artt. 52 e 14 CDF, nonchè 12 Reg. Pen. UCPI, sussiste, senz’altro, un dovere di verbalizzazione “completa”, che impone di dare atto, a verbale, anche di tutto ciò che è sfavorevole alla difesa. Se ne colgono i limiti ictu oculi di tale disposizione; specie se si ricorda che la stessa Cassazione ha riconosciuto al difensore la qualifica di pubblico ufficiale anomalo o limitato, non ritenedolo sottoposto all’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 334 bis c.p.p.».

A giudizio della Corte, anche se il difensore non ha l’obbligo di cooperare per la ricerca della verità, egli comunque ha interesse che la sua attività difensiva sia affidabile quanto quella svolta dal p.m.; ne consegue che il suo diritto a difendersi non può arrivare alla manipolazione della prova, tanto più se si pensa che il difensore può liberamente decidere di non utilizzare processualmente il verbale di dichiarazioni che siano a lui sfavorevoli (391octies) o, ancor prima, può decidere di non verbalizzare le dichiarazioni rese in sede di colloquio preventivo. E’ vero che la falsificazione è reato istantaneo, ma è anche vero che non esiste falsificazione punibile finché l’atto rimane nella esclusiva disponibilità dell’agente (C. Cass. n. 834/1993).

Secondo la Corte, per il principio della parità tra accusa e difesa, i verbali dei difensori hanno la stessa valenza processuale degli omologhi del p.m., e a questi ultimi, senza dubbio, si conferisce il valore di atto pubblico. L’esonero dei difensori dall’obbligo di denuncia (art. 334 bis C.P.P.) non vale ad escludere la loro configurabilità come pubblici ufficiali in quanto si può ritenere che un pubblico ufficiale, in determinate

situazioni, possa essere eccezionalmente dispensato dall’obbligo di denuncia. Per di più la Cassazione ha ormai da qualche tempo accolto una “nozione oggettiva” di funzione pubblica, non legata cioè al soggetto che pone in essere l’atto bensì alla natura dell’atto posto in essere da un determinato soggetto.

In conformità a tali argomentazioni, la Suprema Corte ha ritenuto che integri «il delitto di falso ideologico di cui all’art. 479 C.P. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate sui fatti, di cui all’art. 391 bis e ter, e verbalizzate in modo infedele o incompleto».

Dunque, parità tra accusa e difesa; se il difensore pretende la medesima credibilità del p.m., allora di questo deve avere anche i doveri e le responsabilità.

Ed è qui che sorge il problema: se l’avvocato ha le stesse responsabilità di un pubblico ufficiale, allora, del pubblico ufficiale, che è il suo legittimo contraddittore (il p.m.), dovrebbe averne i poteri e le facoltà. È così oggigiorno?

Analizzando le disposizioni normative, anche alla luce della giurisprudenza, invece, non può dirsi che ciò accada.

Modalità di ricerca degli elementi di prova.

 

Per ben comprendere il contenuto dell’asserzione netta, in coda al precedente paragrafo, è opportuno analizzare gli strumenti che il Legislatore ha messo a disposizione del difensore per la ricerca delle fonti di prova, ed evidenziarne i vulnera.

 

1) Colloqui, ricezione di dichiarazioni e assunzione di informazioni (art. 391 bis).

Il colloquio non documentato è attività riconosciuta al difensore, ma non è certo agevole prendere contatti con un potenziale testimone senza il rischio di incorrere in responsabilità penali.

Già il difensore troppo sollecito nei confronti del proprio assistito rischia di vedersi contestata l’accusa di favoreggiamento personale. Forse, un difensore poco accorto con un potenziale testimone potrebbe vedersi recapitare un avviso ex art. 415 bis per intralcio alla giustizia?

A parte le provocazioni, sono gli aspetti strettamente processuali che possono rivelare delle incongruenze rispetto al principio della parità tra accusa e difesa.

Innanzitutto ex art 391 bis co. 7 c.p.p., il difensore, quando deve procedere a colloquio o ricezione di dichiarazioni o assunzione di informazioni da parte di persona detenuta deve munirsi, preventivamente, di specifica autorizzazione del giudice che viene adottata con ordinanza.

In base all’art. 391 bis co. 3 cpp, il soggetto che rilascia dichiarazioni al difensore deve informare il difensore che procede, se è sottoposta ad indagini o è imputato nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato. In tal caso egli assume la posizione di “teste assistito” e per l’effetto andrà data comunicazione tempestiva al suo difensore ovvero chiedere al giudice la nomina di uno d’ufficio.

Ma come fa una persona a dichiarare il proprio status se non ha avuto “conoscenza legale” della esistenza di un procedimento a carico?

La conseguenza più evidente di un sistema così delineato è che, in caso di dichiarazione erronea, le stesse dichiarazioni rese non sono utilizzabili da parte del difensore che vede così frustrato il proprio diritto di difesa. Anzi, come stabilito dalla Suprema Corte «… se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate” neppure erga alios e, dunque, sono inutilizzabili “non solo nei confronti dello stesso soggetto dichiarante, ma anche nei confronti dei terzi”. Ciò in quanto “sebbene l’art. 63 cpp faccia riferimento all’esame della persona indagata, non sembra consentito distinguere il suddetto regime di inutilizzabilità in ragione del tipo di atto, o della fase in cui esso cade, o dell’organo che lo compie: e pertanto, avuto riguardo alla ratio ed alla finalità della norma che è quella di assicurare le garanzie difensive alla persona che sin dall’inizio doveva essere sentita in qualità di persona sottoposta ad indagini, non può dubitarsi che in siffatta previsione rientri non solo l’esame testimoniale, ma anche l’assunzione di dichiarazioni in sede di investigazioni difensive ai sensi dell’art. 391 bis cpp. Depongono in tal senso sia la analogia di quest’ultima disposizione con quella di cui all’art. 63 cpp, sia il rilievo che gli elementi di prova raccolti dal difensore ai sensi del predetto art. 391 bis cpp, sono equiparabili, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelli raccolti dagli altri soggetti del processo». (Cass. pen. Sez. II, 20-12-2007, n. 47394).

Il problema non si pone certo per il p.m. che nello svolgimento della propria attività d’indagine potrà attingere sulla base di una semplice richiesta a tutte le fonti di cognizione a disposizione del Ministero della Giustizia!

Ex art. 391 bis co. 10 cpp, quando una persona in grado di riferire circostanze utili alle investigazioni si sia avvalsa della facoltà di non rispondere o di non rendere dichiarazioni al difensore ex art. 391 bis co. 3 lett.d) c.p.p., quest’ultimo può richiederne l’audizione al p.m., che provvede a fissarla con decreto entro sette giorni.

E qui già si nota come il tramite del p.m. ritorni ad essere un necessario filtro per l’attività del difensore, in qualità di autorità giudiziaria e non in qualità di parte.

Nessuna sanzione processuale è prevista nell’ipotesi in cui il p.m. ometta di disporre l’audizione. Tale disposizione, del resto, è coerente con la previsione dell’art. 367 c.p.p., che non prevede in capo al p.m. alcun obbligo di provvedere in ordine alle richieste presentate dal difensore.

Tale ruolo del p.m., di signore delle indagini preliminari, viene, purtroppo, riconosciuto anche nella sentenza della II sezione della Cassazione n. 40232 del 23.11. 2006.

In tale sentenza la Corte afferma che «… poiché l’art. 391 bis individua come presupposto che la persona da sentire sia in grado di riferire su circostanze utili ai fini dell’attività difensiva, la richiesta non può limitarsi a rappresentare la legalità dell’avvenuta convocazione e l’esercizio da parte della persona convocata di avvalersi della facoltà di cui alla lettera d) comma 3, ma deve indicare al p.m. le circostanze in relazione alle quali vuole che la persona sia sentita e le ragioni per le quali ritiene che esse siano utili ai fini delle indagini». Secondo la corte, il p.m., nel momento in cui riceve la richiesta deve essere posto in grado di valutare la ricorrenza di tale requisito. Sicché, in mancanza di tale indicazione non sorge per il p.m. alcun obbligo di provvedere con la conseguente pronuncia di irricevibilità della richiesta.

La summenzionata sentenza suscita alcune perplessità:

1) in pratica il difensore, se vuole ottenere un colloquio “coattivo”, è costretto ad una discovery anticipata al p.m., sua parte contrapposta nel medesimo procedimento. E’ facilmente intuibile che, se il difensore ricorre al p.m. per ottenere l’audizione di una persona, con ogni probabilità ritiene che questa persona sia un teste chiave ai fini della predisposizione della linea difensiva. Inoltre, ex art 391 decies, le dichiarazioni documentate possono essere usate per le contestazioni ex art.500, nonché ai sensi degli artt. 512 e 513. Non si vede, dunque, il perché egli sia costretto a svelare anticipatamente al p.m. la propria strategia difensiva indicando le circostanze in ordine alle quali vuole che questa persona sia sentita. E tale assunto vale ancor di più se si pensa che l’art. 391 nonies dà facoltà al difensore di svolgere l’attività di investigazione preventiva: cioè in vista di un futuro eventuale procedimento penale. Tale attività parrebbe preclusa quando ci si trovi di fronte ad un potenziale testimone poco collaborativo, giacché l’articolo esclude che il difensore possa procedere ad investigazioni difensive quando si tratti di atti che richiedono il necessario intervento dell’autorità giudiziaria.

2) Il fatto che il p.m. debba essere posto nelle condizioni di valutare se una persona sia in grado di riferire su circostanze utili alle investigazioni difensive, significa che ad esso è attribuito un potere discrezionale nella valutazione delle fonti di prova e nella loro eventuale esclusione in caso di esito negativo del controllo. E’ evidente la disparità della posizione tra p.m. e difensore: un avvocato potrebbe vedersi preclusa la

possibilità di acquisire al procedimento le dichiarazioni di una persona da lui ritenuta fondamentale per la difesa, per il semplice fatto che il p.m. la ritiene irrilevante o superflua.

L’alternativa prevista dalla legge è quella della richiesta d’incidente probatorio al G.I.P. a norma del co. 11 del medesimo art. 391 bis, e sempre che il giudice per le indagini preliminare l’accolga. Di fatti, in caso di rigetto della richiesta poca strada può percorrere il difensore, visto che «… l’ordinanza di rigetto da parte del G.I.P. della richiesta di assumere, con incidente probatorio, ai sensi dell’art. 391-bis, comma 11, c.p.p., la testimonianza di soggetto rifiutatosi di rendere, su richiesta del difensore, dichiarazioni scritte o informazioni, ai sensi degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p. o che abbia dichiarato di volere essere ascoltata alla presenza del P.M. o durante incidente probatorio, non è soggetta a gravame, stante il principio di tassatività delle impugnazioni (art. 568, comma 1, c.p.p.) e l’esigenza di speditezza della procedura, rimanendo altresì esclusa la sua qualificabilità quale provvedimento abnorme, e quindi la possibilità di impugnarla con ricorso per Cassazione, dal momento che essa, a prescindere dalla eventualeerroneità della decisione o della relativa motivazione, non può dirsi avulsa dall’intero ordinamento processuale (cosiddetta abnormità strutturale) né adottata al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, tanto da determinare una stasi irrimediabile del processo (cosiddetta abnormità funzionale) (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 20130 del 23-05-2002).

Il combinato disposto di tale norma con quello di cui all’art. 391 octies co.3 c.p.p. presenta rilevanti contraddizioni. Infatti, ai sensi dell’art. 391 octies co. 3 c.p.p., il p.m. può prendere visione ed estrarre copia del fascicolo del difensore (depositato presso il GIP) prima ancora che venga adottata una decisione su richiesta delle altre parti o con il loro intervento.

In un sistema così delineato, se il difensore formula richiesta d’incidente probatorio, il p.m. ha diritto di prendere visione del suo fascicolo e di estrarne copia. Tuttavia una norma speculare per il p.m. non esiste: se è il p.m. ad avanzare richiesta d’incidente probatorio, del suo fascicolo il difensore non può prendere visione né estrarne copia, in tutti i casi. Tale facoltà, infatti, è riconosciuta al difensore solo nei casi di cui all’art. 392 Co. 1-bis CPP (assunzione di testimonianza di persona minore degli anni sedici, procedimenti per reati sessuali) e solo se il G.I.P. accoglie la richiesta di incidente probatorio formulata dal P.M., ai sensi dell’art. 398 Co. 3 bis c.p.p.. (Soprassediamo in ordine al fatto che non appare coerente con il sistema la discovery del p.m. in caso di sua richiesta di incidente probatorio limitata ai reati cosiddetti sessuali e per l’ascolto di persona minore degli anni sedici, e non per tutti i casi di incidente probatorio a richiesta di una delle parti).

Quid iuris, invece, se il Pubblico ministero in accoglimento della richiesta del difensore ex art. 391 bis comma 10, con decreto dispone l’audizione della persona informata che si è avvalsa della facoltà ex art. 391 bis comma 3 let. d)?

La soluzione, preoccupante e scoraggiante ancora una volta il ricorso a questo strumento da parte del difensore, l’ha data la giurisprudenza di legittimità.

«Allorquando il difensore abbia richiesto l’intervento del PM per l’assunzione di informazioni dalla persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa, l’assunzione di tali informazioni diviene, a tutti gli effetti, assunzione di informazioni da parte del PM e comporta esclusivamente l’osservanza degli obblighi e dei limiti stabiliti per tale atto dall’articolo 362 del cpp, pur essendo tuttavia concesso che l’audizione si svolga alla presenza del difensore, al quale è consentito di formulare per primo le domande, salvo il potere del PM di porne altre, sempre nel rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 362 del cpp. Ne deriva, quindi che, in tale evenienza, non sono previsti gli avvertimenti preliminari – che ordinariamente devono essere rivolti al dichiarante e analiticamente verbalizzati ai sensi del comma 3 dell’art. 391 bis del cpp –

giacchè tali avvertimenti non riguardano il PM, come può evincersi dalla stessa formulazione testuale della norma, che pone i relativi obblighi a carico esclusivamente del difensore, del sostituto, degli investigatori autorizzati o dei consulenti tecnici». Da queste premesse, è stata rigettata la doglianza della difesa che, assumendo, invece, l’applicabilità degli avvertimenti anche al PM chiamato ad assumere le informazioni ex art. 391 bis, comma 10, del cpp, sosteneva che, in mancanza di tali avvertimenti, le dichiarazioni raccolte dovessero ritenersi inutilizzabili anche in sede di rito abbreviato ai sensi dell’articolo 391 bis, comma 6, cpp. (Cass. pen., Sez. III, 29-05-2007 n. 21092).

Sulla scorta dei suddetti preamboli, la Cassazione, in altra sentenza, si è pronunciata in maniera tale, probabilmente, da rendere ex facto lettera morta il ricorso allo strumento procedimentale di cui all’art. 391 bis comma 10. Afferma, infatti, la Suprema Corte «… L’atto raccolto ai sensi dell’art. 391 bis, comma 10, del cpp, costituisce, a tutti gi effetti, atto del PM, sicchè non confluisce nel fascicolo del difensore (ai sensi dell’art. 391 octies, comma 3, cpp), bensì direttamente in quello del PM e, poi, nel fascicolo per il dibattimento, potendo essere utilizzato per le contestazioni ex art. 500 cpp, nonchè acquisito mediante lettura ai sensi degli artt. 512 e 513 cpp (Cass. pen., Sez. III, 29-05-2007 n. 21092).

Partendo dall’assunto che il difensore non sa ciò che il soggetto informato riferirà, ma solo ciò che potenzialmente potrebbe riferire, chi avvocato rischia di far confluire nel fascicolo del dibattimento fatti dichiarativi a carico dell’assistito?

Insomma, la disparità di trattamento in un procedimento di parti è di tutta evidenza, in quanto il difensore è obbligato, se vuole raccogliere una dichiarazione formale di un futuro teste, ad un’anticipata ostensione degli elementi probatori raccolti.

L’unica alternativa che rimane al difensore, è quella del colloquio informale (con le dovute cautele che la situazione richiede) con la persona informata sui fatti a lui utili e citarla come teste a difesa nel dibattimento. E’ di tutta evidenza la posizione di svantaggio del difensore rispetto al p.m.: quest’ultimo potrà utilizzare i verbali delle s.i.t. ai fini delle contestazioni; ma il difensore cosa potrà fare di fronte ad un teste che, chiamato a difesa, rende dichiarazioni non coincidenti con ciò che aveva dichiarato in sede di colloquio non documentato?

Ma certamente non può sfuggire che, mentre il Pubblico ministero o la Polizia giudiziaria nell’attività di assunzione di informazioni da persona informata sui fatti possono procedere liberi da lacciuoli, il difensore, in sede di domande, è sempre sottoposto al limite ex art. 52 C.D.F., secondo cui « non possono trovare spazio domande che, con forzature e suggestioni, siano dirette a conseguire deposizioni compiacenti».

Serie di problemi che non tiene conto della necessità eventuale, e ormai sempre meno remota, della difesa di dovere assumere informazioni da una fonte residente all’estero. Negli sparuti casi in cui questa circostanza si sia presentata, la giurisprudenza ha sempre evidenziato che la disciplina di riferimento non è quella di cui agli articoli 391 bis e seguenti del codice di rito ma quella della “rogatoria internazionale”, con tutti i ovvi limiti che ciò comporta per il difensore. Infatti, secondo la Suprema Corte «… in relazione alla inutilizzabilità delle investigazioni difensive, deve rilevarsi che la stessa

discende dai principi generali del codice di procedura penale e, pur non essendo esplicitamente affermato che il difensore non può recarsi all’estero a svolgere dette investigazioni, discende dall’ordinamento tale divieto, essendo evidente che, ai fini dell’utilizzabilità di atti compiuti all’estero, per tutte le parti processuali, deve essere esperita la procedura prevista dal codice in materia di rogatorie. Poichè non è prevista la possibilità per il difensore di ricorrere alla rogatoria all’estero, ne discende che tale tipo di atto non è esperibile dal difensore mediante la disciplina prevista dall’art. 391 bis cpp ed egli ha l’obbligo di passare attraverso la richiesta al PM o al GIP, affinchè costoro attivino la procedura della rogatoria internazionale. D’altronde, tramite le indagini difensive non è esperibile ogni tipo di atto: il legislatore ha limitato l’oggetto

delle indagini all’assunzione di dichiarazioni, alla richiesta di documentazione, all’accesso ai luoghi, ma ad esempio non ha previsto la possibilità di effettuare accertamenti tecnici irripetibili, in relazione ai quali il difensore ha l’obbligo di inoltrare richiesta al PM» (Cass. pen. Sez. I, 19- 06-2007, n. 23967).

Un altro dato, che non può essere sottaciuto, è quello tratto da un sondaggio fatto dall’Unione delle Camere Penali a dieci anni dalla promulgazione della legge n. 397/2000. Stando a quanto comunicato, la percentuale di avvocati che si sono rivolti al Pubblico ministero, a seguito di rifiuto a rispondere, o comunque a presentarsi, opposto dalla persona informati sui fatti convocata, è bassissima[1]. Ciò a riprova dell’inefficacia del rimedio offerto dal codice in caso d’impossibilità per il difensore di potere esercitare una legittima facoltà, a tutto vantaggio del suo assistito.

 

2) Richiesta di documentazione (art.391 quater).

Il difensore ha facoltà di richiedere gli atti solo se siano in possesso della P.A.

Alla P.A. si possono chiedere gli atti. La dottrina ha però affermato che in tal caso restano salve le norme che tutelano il segreto di Stato o quelle che altrimenti prevedono il segreto o il divieto di divulgazione.

Qualche dubbio è stato avanzato se tra la P.A. sia compresa anche la Polizia Giudiziaria.

Nulla vieta in linea di principio la richiesta d’informazioni e documentazione alle Questure o Uffici di Polizia, ma ciò non significa che l’esito sia positivo.

Certo è che la P.A. non è obbligata a ottemperare alla richiesta del difensore il quale può agire ai sensi degli art. 367 e art 368. La facoltà di chiedere il sequestro è, però, limitata nel tempo, con riferimento alle sole indagini preliminari, stante l’espresso richiamo agli articoli in parola. Il p.m. può accogliere l’eventuale richiesta di sequestro oppure, se non ritiene, trasmettere la richiesta al G.I.P. con il proprio parere, certamente sfavorevole, il quale provvederà; e si intuisce con quali esiti. Il sequestro, peraltro, come già accade per l’audizione presso il PM e per l’incidente probatorio tramite Gip, diverrebbe sicuramente un atto del PM e non più della difesa: conseguentemente, quanto acquisito sarebbe sempre utilizzabile anche contro il proprio assistito. Con evidente grave rischio per le strategie difensive in caso di documenti dal contenuto “a sorpresa” , e non in linea con le finalità di cui all’art. 327 bis cpp (‘ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito’).

Anche in questo caso è evidente che, laddove il difensore incorra in un rifiuto di una amministrazione pubblica, è al p.m. che si deve rivolgere in prima istanza, con ciò evidenziandosi l’intima contraddizione di tale previsione. Anche in questo caso, infatti, la difesa è costretta ad indicare anticipatamente al p.m. i documenti che intendeva acquisire, lasciandolo addirittura arbitro di decidere se il sequestro sia utile o meno alle indagini.

Anche qui la via del dibattimento e la richiesta di acquisizione ex art 507 c.p.p. rimane l’unico strumento per evitare un’anticipata ostensione della propria linea difensiva. Anche se con il grande limite della valutazione di assoluta necessità rimessa alla discrezionalità del giudice.

E’ da notare al riguardo che, per un mancato coordinamento con la legge sulla trasparenza amministrativa e con la legge sulla privacy, il difensore ha minori poteri verso la P.A., in sede di investigazioni difensive che in sede di procedimento amministrativo. Infatti, ai sensi della legge sulla indagini difensive, la P.A. non ha l’obbligo di collaborare con il difensore richiedente il documento, cosa che invece le è imposta dalla legge n. 241/90, salvi dinieghi connessi al segreto d’ufficio, con onere comunque di rispondere alla richiesta entro determinati termini (a pena di sanzione anche penale) e di motivare l’eventuale diniego.

Sul punto, infatti, la giustizia amministrativa ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione.

I giudici di Palazzo Spada hanno stabilito che «… Al fine dell’acquisizione della documentazione di cui trattasi il M. si è invero avvalso della disciplina normativa concernente l’istituto delle investigazioni difensive, e non già di quella relativa al diritto di accesso ex L. 241/90, con le correlate conseguenze sul piano della tutela giurisdizionale. Il detto istituto, introdotto dalla legge 397/2000 nell’ambito del processo penale, in attuazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost., al fine di consentire agli interessati, per il tramite del difensore, di svolgere attività utili all’acquisizione di elementi di prova, si inserisce di norma nella fase delle indagini preliminari; l’attività di investigazione ben può svolgersi, peraltro, anche in relazione ad un eventuale futuro processo a norma dell’art. 391 quater C.p.p.. Nel caso che ne occupa, il difensore del M. ha chiesto all’Amministrazione, ai sensi dell’art. 391 quater C.p.p., il rilascio della riferita documentazione ai fini delle indagini difensive relative al

“procedimento penale … pendente dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di …”, in cui l’interessato risultava indagato. E in tale quadro si colloca la nota di rigetto … Orbene, il 3° comma della precitata disposizione stabilisce che, a fronte del diniego dell’Amministrazione, “si applicano le disposizioni degli articoli 367 e 368”, che contemplano, rispettivamente, la richiesta scritta al pubblico ministero e, per il caso che quest’ultimo ritenga di non aderire alla istanza dell’interessato, la trasmissione della stessa, con il parere del P.M., al giudice per le indagini preliminari.

Il sistema normativo prevede quindi, per siffatta ipotesi, un mezzo di tutela giurisdizionale demandato a diverso giudice, e non al giudice avente giurisdizione per la fattispecie del diniego di accesso disciplinato dalla legge n. 241/90» (Consiglio di Stato, Sex. IV, 26-4-2007 n. 1896).

A tale proposito il TAR Lombardia 17.10.2006 con sentenza n. 2013 ha ribadito le diversità dei due istituti, stabilendo che «…l’istituto dell’accesso agli atti del procedimento amministrativo ha finalità di verifica dell’imparzialità e trasparenza dell’attività della P.A. e l’accesso agli atti del procedimento, e riconosce tale diritto solo a chi sia titolare di un interesse diretto, concreto, ed attuale, corrispondente alla posizione giuridicamente tutelata e collegata alla documentazione richiesta. Le investigazioni difensive hanno la finalità di individuare elementi di prova per un instaurato o instaurando processo penale. Di conseguenza il procedimento penale, ancorché non sia ancora instaurato, non può essere equiparato al procedimento amministrativo. Quando, dunque, il difensore agisca per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, dovrà procedere secondo gli strumenti previsti dall’art. 391 quater c.p.p.. a meno che, in presenza di un procedimento amministrativo, lo stesso non assuma altresì la posizione di soggetto contro interessato; in tal caso l’acquisizione di documenti potrà essere consentita sulla base del principio generale dell’accesso agli atti amministrativi». Si aggiunge in altra sentenza anche il disitinguo tra i due istituti con riferimento alla natura che assume il soggetto destinatario della richiesta «L’istituto delle investigazioni difensive nell’ambito del processo penale è stato introdotto dalla legge 397/00, al fine di consentire anche agli interessati, per il tramite dei propri difensori, di svolgere le attività utili ad individuare ed acquisire elementi di prova a prorio favore (art. 327 bis

cpp). In tal modo il legislatore ha inteso dare attuazione al principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., in particolare per quanto attiene alla “parità delle armi” tra PM e difensore nella formazione della prova. L’attività di investigazione difensiva si inserisce infatti nella fase delle indagini preliminari, che è finalizzata ad acquisire elementi rilevanti di prova per il processo, e si conclude con la formazione di un fascicolo del difensore che questi può presentare al Giudice Penale e che dovrà essere valutato in uno con il fascicolo del PM. L’attività investigativa può svolgersi anche per un processo non ancora in corso ma futuro ed eventuale, ai sensi dell’art. 391nonies. E quest’ultimo è il caso di specie. Il ricorrente ha conferito ad un legale apposito mandato per svolgere investigazioni difensive in funzione di un processo futuro ed eventuale, avente ad oggetto l’eventuale falsità delle dichiarazioni di regolarità contributiva rilasciate dall’INPS a favore della controinteressata ed ha così attivato un’indagine preliminare a carico dei funzionari responsabili dell’ente. Tale attività si è svolta mediante la convocazione di un funzionario, il cui esito non rileva nella presente sede, ed una richiesta di documentazione cui l’ente ha opposto un diniego, avverso il quale è stato incardinato il presente processo. Stando così le cose appaiono fondate le eccezioni di inammissibilità formulate dall’ente intimato e dalle controinteressate. La ricorrente non ha infatti attivato un procedimento amministrativo ma, sia pure nelle sue fasi preliminari, un processo penale, il quale trova compiuta disciplina e regolamentazione nel cpp. L’art. 391 quater, dedicato alla richiesta di documentazione alla PA, al comma 3 stabilisce che, in caso di rifiuto di ostensione, può essere chiesto il sequestro dei documenti al PM. Tale disposizione non rimanda affatto alle norme processuali di cui all’art. 25, legge 7 agosto 1990, n. 241. Ciò significa che il legislatore ha inteso tenere distinte le procedure di acquisizione di documenti dalla PA effettuate, da un lato, nell’ambito di investigazioni difensive volte ad individuare elementi di prova per un processo, penale, eventuale o già in corso; dall’altro, nell’ambito dell’esercizio del diritto di accesso ai sensi della legge n. 241/90, che è generalmente riconosciuto a chi sia titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata alla documentazione richiesta (art. 22, comma 1, lett. a), l. n. 241/90), la quale ultima è finalilzzata non ad individuare elementi di prova per un processo, ma ad attuare la trasparenza e a verificare l’imparzialità dell’operato della pubblica amministrazione. Si tratta di due sistemi giuridici diversi, con finalità diverse e che trovano ciascuno compiuta e precisa regolamentazione, tra le quali il legislatore non ha previsto collegamenti od interferenze. La giurisdizione del Giudice Amministrativo, non solo quella di legittimità, ma anche quella esclusiva, deve essere limitata a fattispecie nella quale la PA agisce come pubblica autorità, con l’utilizzo di prerogative pubblicistiche (Corte Cost. n. 204), e non può sussistere in situazioni ove essa assume gli stessi diritti ed obblighi di un comune cittadino, come nel caso in esame» (TAR

Lombardia, Sez. I, 17-10-2006 n. 2022).

Non è da sottovalutare però un effetto collaterale della richiesta di documentazione alla P.A., che di fatto potrebbe azzerare l’effetto a “sorpresa” della richiesta di accesso documentale, e favorevole all’indagato. E’ possibile, infatti, che la PA in concreto applichi l’art. 3 DPR 12-04-2006 n. 184 (Regolamento per l’attuazione dell’accesso agli atti amministrativi di cui alla L. 241/90), pretendendo la comunicazione ai controinteressati della istanza di copie, annullando così l’esigenza di segretezza della investigazione difensiva ed adottando una norma prevista per l’accesso amministrativo, anzichè investigativo-difensivo. Per vero, in qualche caso, la PA ha provveduto d’ufficio alla notifica al controinteressato.

Quanto alla richiesta di documentazione ai privati, invece, non è prevista una disciplina specifica. Si dovrà dunque procedere, come sopra, per l’assunzione di informazioni.

Non è mancato qualche difensore che abbia utilizzato la norma dell’art. 391 septies (relativa all’accesso ai luoghi privati) per sostenere che tale facoltà di accesso comprende anche l’acquisizione dei documenti che in quel luogo si trovano assumendo che sia connaturato al potere ispettivo quello di prendere visione ed estrarre copia. La Corte di Cassazione sez. II, con sentenza n. 42588/2005 (sul punto non ci sono precedenti) ha fermamente negato tale possibilità affermando che l’ipotesi di accesso agli atti da altri posseduti è tassativamente limitata agli atti della P.A..

D’altra parte, sostenere che l’art. 391 septies, nel dar facoltà di accesso al difensore, include anche quella di prendere visione ed estrarre copia dei documenti, finirebbe (secondo la corte) per sovvertire i principi che presiedono il sequestro penale.

La Corte si colloca nella medesima posizione della dottrina concludendo che, se il difensore voglia accedere agli atti posseduti dai privati, potrà utilizzare gli strumenti previsti dagli art. 367 e 368 C.P.P. con le conseguenze poc’anzi evidenziate.

 

3) Accesso ai luoghi (art.391 sexies e septies).

Entrambe le norme presuppongono che le cose oggetto di accertamento non siano sottoposte a sequestro, trovando in tal caso applicazione gli artt. 253 e 366 c.p.p.

L’attività consentita al difensore è quella di natura ispettivo-descrittiva (visione, descrizione di cose o luoghi compimento di rilievi tecnici) di cui può essere redatto verbale: è consigliabile farlo, come è consigliabile anche la videoregistrazione delle operazioni. Si potrà decidere eventualmente di non depositare il verbale, salvo che non documenti accertamenti tecnici non ripetibili o altri atti non ripetibili rispetto ai quali il PM abbia esercitato la facoltà di assistervi.

Durante l’accesso ai luoghi è stata ritenuta illegittima la pretesa di ottenere documenti:

l’acquisizione, infatti, sarebbe contemplata in via eccezionale solo dall’art. 391-quater cpp nei confronti della pubblica amministrazione (Cass. Sez. II, 24-11-2005 n. 42588). L’articolo 391 septies c.p.p., in effetti, regola esclusivamente l’accesso del difensore ai luoghi privati o non aperti al pubblico, ed è del tutto escluso che esso consenta l’acquisizione documentale; quest’ultima, infatti, e’ espressamente disciplinata – ma solo con riferimento alla pubblica amministrazione – dall’articolo 391 quater c.p.p., il quale ha mutuato il modello comportamentale previsto dall’articolo 256 c.p.p., che impone l’immediata consegna all’autorità giudiziaria che ne faccia richiesta, degli atti e dei documenti custoditi dalle persone indicate negli articoli 200 e 201 c.p.p. Ma che il menzionato articolo 391 septies c.p.p. si limiti ad estendere al difensore i poteri di ispezione, e non quelli di perquisizione lo si ricava con assoluta certezza non solo dalla lettera della legge, ma anche dalle seguenti considerazioni:

1) La norma in esame deve essere letta insieme a quella del precedente articolo 391 sexies c.p.p., che regola l’accesso ai luoghi; e quest’ultima disposizione di legge consente al difensore, al sostituto e agli ausiliari indicati nell’articolo 391 bis c.p.p. soltanto di procedere alla descrizione dei luoghi o delle cose e di eseguire rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi, redigendo apposito verbale.

E’ perciò escluso che le suddette disposizioni possano essere utilizzate per ricercare documenti e per richiederne copia, attivita’ questa riservata alle perquisizioni e ai sequestri.

2) L’accesso alla documentazione da altri detenuta è regolato espressamente dall’articolo 391 quater c.p.p., che si riferisce – come si e’ cennato – solo ai documenti in possesso della pubblica amministrazione. Quest’ultima, d’altro canto, a prescindere dalla norma del codice di procedura penale in esame, ha l’obbligo di consentire l’accesso dei privati ai documenti in suo possesso, purchèi richiedenti provino di avere un interesse personale e concreto a prenderne visione e a estrarne copia. Mentre nessun obbligo del genere è stato stabilito dalla legge a carico dei singoli soggetti privati, detentori di documentazione che potrebbe interessare terzi. Conseguentemente, il legislatore ha distinto le due ipotesi, consentendo che il difensore – al fine di superare alcune difficolta’ esistenti nella normativa sull’accesso – possa immediatamente richiedere alla pubblica amministrazione i documenti che questa possiede; e negando invece che siffatta facoltà spetti al difensore nei confronti di un soggetto privato, rispetto ai documenti da quest’ultimo posseduti.

3) Adottando la soluzione giuridica prospettata dal ricorrente, si finirebbe con il sovvertire i principi che presiedono al sequestro penale: infatti, la stessa autorità giudiziaria incontra alcuni limiti nell’esecuzione di un provvedimento di coercizione reale (pertinenza della cosa da sequestrare con il reato o con la prova di esso, necessità di allegare agli atti in ogni caso il documento sequestrato; possibilità per il terzo di impugnare il provvedimento di sequestro); mentre nessuno di questi limiti sarebbe concretamente operativo nei confronti del difensore, se l’articolo 391 septies c.p.p. gli attribuisse un potere di perquisizione tanto esteso da consentirgli la ricerca e

l’estrazione di copia dei documenti posseduti dai privati. Dunque è corretta la tesi giuridica sostenuta nel provvedimento impugnato, in ordine alla quale – pur in assenza di precedenti giurisprudenziali – ha avuto modo di pronunciarsi la dottrina.

Peraltro, tutti i commentatori della norma in esame hanno rilevato – alcuni criticandolo e altri condividendolo – il mancato riferimento alla facoltà di accesso alla documentazione detenuta dai privati; e hanno giustamente affermato che l’unico rimedio esperibile, nell’ipotesi di rifiuto del privato di esibire documenti, sia il ricorso alla richiesta di sequestro di ex articolo 368 c.p.p. o la formulazione di istanze ex articolo 367 c.p.p., disposizioni queste cui fa rinvio lo stesso articolo 391 quater, comma 3, in caso di rifiuto di esibizione da parte della pubblica amministrazione. Anche in questa sede il passaggio attraverso l’autorità giudiziaria è d’obbligo: se si vogliono acquisire cose o documenti, si dovrà presentare richiesta al p.m. ex art. 367 e 368 c.p.p. nell’ipotesi di accesso a luoghi privati, qualora non vi sia il consenso di chi vi ha la disponibilità, si deve ottenere l’autorizzazione del giudice.

Da analizzare, seppur brevemente, sono le facoltà spettanti al difensore, nell’ipotesi della bipartita disciplina dell’accesso ai luoghi, per l’effettuazione di accertamento tecnico ripetibile o irripetibile.

Per gli accertamenti tecnici non ripetibili, se è obbligatorio avvisare il PM., per l’esercizio delle facoltà previste dall’ari. 360 c.p.p. e giacchè i risultati entrano ex lege nel fascicolo del dibattimento, si ricorda che, per qualche giurisprudenza di merito, il difensore non può compiere accertamenti tecnici che importino una modificazione irreversibile dello stato dei luoghi, tale da rendere l’accertamento stesso non ripetibile, se essi non siano anche indifferibili. Pertanto, il giudice non può autorizzare ex art. 391-septies comma 1 cpp l’accesso in luogo privato nel caso in cui l’istanza difensiva sia volta al compimento di attività irreversibilmente modificativa dello stato dei luoghi.

Per di più, qualora ricorra la necessità di compiere accertamenti tecnici irripetibili, l’art. 15 delle Reg. Pen. UCPI integra l’art. 391 decies, comma 3, cpp, prevede che debba essere dato avviso, non solo al PM ma anche a tutti coloro nei confronti dei quali l’atto possa avere effetto e dei quali si abbia conoscenza.

Peraltro, incidentalmente, si segnala che sia pure in un obiter dictum la giurisprudenza risulta aver affermato quanto segue «… D’altronde, tramite le indagini difensive non è esperibile ogni tipo di atto: il legislatore ha limitato l’oggetto delle indagini all’assunzione di dichiarazioni, alla richiesta di documentazione, all’accesso ai luoghi, ma ad esempio non ha previsto la possibilità di effettuare accertamenti tecnici irripetibili, in relazione ai quali il difensore ha l’obbligo di inoltrare richiesta al PM» (Cass. pen. Sez. I, 19-06-2007, n. 23967). E questa pronunzia entra nel solco di quanto si cerca di sostenere a rigurdo della “parità delle armi” tra accusa e difesa.

Per concludere, un’ultima oservazione sui limiti dell’art. 391 decies, comma 3 c.p.p..

La norma, nella parte che impone la comunicazione al pubblico accusatore dell’intendimento investigativo, che attiene un atto irripetibile, è ragionevole, in quanto attribuisce al p.m. le stesse facoltà che attribuisce, ex art. 360 c.p.p., al difensore e, pertanto, il parallelismo è evidente.

Non altrettanto può dirsi, invece, per la seconda parte della norma citata, in virtù della quale, per gli atti non ripetibili, diversi dagli accertamenti tecnici, compiuti in occasione dell’accesso ai luoghi, il difensore deve comunque darne avviso al p.m., affinché eserciti la facoltà di assistere personalmente, o delegando la P.G., al compimento di tali atti. La disposizione non è coerente, poiché non esiste un’analoga disposizione che obbliga il p.m., nel compimento della stessa attività d’indagine, di dare avviso al difensore.

Forse nell’idea del legislatore l’intervento dell’Autorità pubblica investigativa ha lo scopo di attribuire valenza probatoria all’atto irripetibile raccolto dal difensore, considerato che ai sensi del 391 decies, comma 4 c.p.p., il verbale degli gli accertamenti tecnici irripetibili del difensore, e quelli irripetibili non tecnici -accesso ai luoghi- cui ha assisitito il p.m., transitano nel fascicolo ex 431 c.p.p.

Anche qui è evidente l’irragionevole delegittimazione della difesa.

Da notare infine che, trattandosi le investigazioni comunque di atti e d’interventi del privato nella sfera giuridica di altro privato, la Cassazione ha stabilito, in ossequio ai principi processuali e costituzionali, una sorta di “flessibilità” nell’adozione dei provvedimenti “invasivi” adottati dal giudice su richiesta del difensore-investigatore. Un caso pratico, cui la Cassazione ha dovuto dar risposta, può far cogliere la portata della “flessibilità” di cui si parla.

«… Con decreto del 25 ottobre 2005, il Tribunale di Firenze autorizzò, tra l’altro, il difensore di G.M. ad accedere nei locali della Cassa di Risparmio di Firenze al fine di prendere visione di alcuni documenti. Contro tale provvedimento propose alcune censure l’istituto bancario suddetto e – a seguito di queste – il Tribunale convocò le parti in camera di consiglio, ex articolo 127 c.p.p.. Tenutasi l’udienza, con provvedimento del 15 novembre 2004, il Tribunale revocò il menzionato decreto del 25 ottobre, nella parte in cui autorizzava il difensore a prendere visione dei documenti. (…) Il ricorrente si duole anzitutto che il Tribunale abbia pronunciato il provvedimento impugnato a seguito di udienza camerale, sebbene il decreto da rettificare fosse stata emesso de plano. Contesta poi la facolta’ di revoca del decreto.

La prima censura è manifestamente infondata perchè l’adozione di un provvedimento a seguito di una udienza camerale, anche quando questa non è imposta dalla legge, costituisce un rafforzamento della tutela delle istanze difensive del quale la parte non ha un legittimo interesse a dolersi, e non determina, per il principio di tassatività di cui all’articolo 177 c.p.p., una nullità eccepibile con l’impugnazione.

Ma anche la seconda censura è affetta dallo stesso vizio: infatti – come ha rilevato il Procuratore Generale presso questa Corte – al Tribunale competono poteri di intervento ordinatorio nelle indagini difensive, che implicano la necessità di modifiche e aggiustamenti, sempre possibili nel corso dell’esecuzione delle indagini medesime; e ciò in quanto la L. 7 dicembre 2000, n. 397, nel disciplinare la nuova delicata materia, ha riconosciuto alla parte poteri anche invasivi della sfera privata, ma ha garantito il bilanciamento degli interessi costituzionalmente garantiti della effettività della difesa e della salvaguardia dei diritti fondamentali, richiedendo la mediazione dell’autorità giudiziaria nella concessione delle autorizzazioni» (Cass. Sez. II, 24-11-2005 n. 42588).

Anche qui si può notare la differenza tra i poteri del p.m. e quelli del difensore.

L’unica eccezione a tale metodologia è costituita dall’accesso del difensore nei locali aperti al pubblico, circostanza, questa, del tutto ovvia. Se l’accesso è svolto nei luoghi aperti al pubblico con le modalità di cui all’art. 391 sexies cpp, la scelta di procedere alla verbalizzazione delle operazioni è rimessa alla discrezionalità di chi conduce l’incombenza. Nulla è specificato con riguardo al verbale nell’ipotesi di accesso in luoghi privati o non aperti al pubblico (ai sensi dell’art. 391 septies). Peraltro, posto che l’art. 391 septies individua una sottospecie del più generico diritto di accesso, anche per l’accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico dovrebbe valere il principio di facoltatività della verbalizzazione. Corre l’obbligo ricordare che l’art. 14 Reg. Pen. UCPI indica la necessità, comunque, di «… documentare nelle forme più opportune lo stato dei luoghi» e di documentare, anche mediante annotazione, gli avvisi (in ordine alla propria qualità, alle intezioni e alle conseguenze in caso di rifiuto) formulati per l’ipotesi di accesso a luogo privato o non aperto al pubblico.

Non è invece consentito al difensore ed agli altri soggetti di cui all’art. 391 bis Co. 1, l’accesso ai luoghi di abitazione e loro pertinenze, «salvo che sia necessario per l’accertamento di tracce e gli altri effetti materiali del reato» (Co. 3 art. 391 decies).

La norma è poco chiara.

Innanzitutto non fa riferimento alla richiesta di autorizzazione del giudice. Il problema che ci si deve porre è se, quando si tratti di luoghi di privata dimora, sia sempre e comunque necessaria l’autorizzazione del giudice anche in presenza del consenso all’accesso prestato dall’avente diritto. Al riguardo ci si chiede in base a quale principio sarebbe necessario l’intervento del giudice quando l’avente diritto abbia volontariamente concesso al difensore di accedere nella propria abitazione.

La norma andrebbe dunque intesa nel senso che, quando si tratta di privata dimora, neppure l’autorizzazione del giudice può superare il difetto di consenso di chi ne ha la disponibilità, a meno che non si tratti di necessario accertamento di cose e tracce del reato. Sarà, naturalmente, il giudice a valutare non solo il tipo di atto che andrà compiuto ma anche se questo sia necessario o meno.

Anche in questa sede l’intervento del giudice è filtro dell’attività del difensore.

Tuttavia si deve ammettere che questa norma è più coerente agli intendimenti del legislatore di quanto non lo siano le altre: infatti, in questo caso, diretto interlocutore del difensore è il giudice terzo e non il p.m.

 

4) investigazione preventiva (art. 391 nonies)

La legge conferisce al difensore il potere di compiere l’investigazione difensiva non solo in un momento successivo all’iscrizione dell’indagato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., ma può essere anche preventiva; cioè prima che le indagini preliminari abbiano inizio. Nell’uno o nell’altro caso è sempre necessario il consenso del cliente, tanto la Suprema Corte, sul presupposto che quello della difesa è un diritto irrinunciabile, ha ritenuto illegittima l’attività investigativa svolta dal “difensore in proprio” (Cass. civ. Sez. Unite, 10-01-2006, n. 139).

L’art. 391-nonies cpp prevede la necessità che sia raccolta una preventiva nomina con autentica della firma dell’assistito e con indicazione dei fatti a cui si riferisce.

Preliminarmente mi preme notare che siccome il codice, nel disciplinare l’attività di investigazione, non distingue in alcun modo tra difesa dell’indagato e difesa della persona offesa parlando genericamente di “assistito” (art. 327 bis c.p.p.), la c.d. “attività investigativa preventiva della difesa” può essere espletata anche dalla persona offesa.

E’ indubitabile che, almeno in linea teorica, sia possibile svolgere – su incarico del cliente – attività diretta all’acquisizione di notizie, dati, prove a carico d’ignare persone, senza limiti di tempo e senza che vi sia alcun controllo da parte di un giudice su tale attività. Ed è altresì chiaro il limite di tale attività: non può comprendere atti che richiedono l’intervento o l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

Sul punto la Cassazione è stata categorica «… è abnorme il decreto con il quale il giudice autorizza, in sede di investigazione difensiva preventiva, l’accesso del difensore di soggetti, che non erano ancora indagati o persone offese, a luoghi privati e non aperti al pubblico (nella specie sottoposti a sequestro probatorio da parte del PM nell’ambito di procedimento avviato contro ignoti per il crollo di una palazzina), poichè, in sede di investigazione preventiva, non è consentito al difensore lo svolgimento di atti che richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, vale a dire del PM o del giudice… Gli atti di cui è consentito lo svolgimento si riducono, in sostanza, al colloquio non documentato, alla ricezione di dichiarazione scritta o all’assunzione di informazioni dal potenziale testimone, alla richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione ed all’accesso ai luoghi pubblici o aperti al pubblico» (Cass. Sez. IV, 14.10.2005 n. 1709).

Atteso il diverso atteggiarsi delle due forme di attività investigative, sarebbe quanto mai utile che l’indagato o il suo difensore fossero in grado di valutare se l’attività svolta appartiene all’investigazione “preventiva” o all’investigazione “successiva”.

Come fa il cittadino a conferire mandato al proprio difensore se non viene a conoscenza che nei suoi confronti si svolgono indagini?

Ma quando il cittadino viene a conoscenza del suo status di indagato secondo l’attuale sistema?

Solo nei seguenti casi:

1) con la richiesta indirizzata al Pubblico Ministero, ai sensi dell’art. 335 comma 3 CPP. Ma tale richiesta non è ammissibile qualora si procede per uno dei delitti di cui all’art. 407 co.2 lett. a) c.p.p.

Inoltre, il Pubblico Ministero può disporre con decreto motivato il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabile (art. 335 comma 3 bis CPP).

2) in caso di provvedimenti de liberiate o di misure cautelari reali ed in caso di ispezioni, perquisizioni e sequestri.

3) in caso di incidente probatorio richiesto dal p.m..

4) in caso di richiesta del p.m. al GIP di proroga delle indagini.

5) con l’informazione di garanzia.

6) quando il p.m. invia l’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari.

Si comprende, dunque, che per la fase d’indagine preliminare, il difensore è nell’impossibilità, quando non sia posto in grado di conoscere la pendenza del procedimento, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone, nonché l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a discarico nelle stesse condizioni dell’accusa.

Ed è evidente anche in tal caso la posizione di svantaggio del difensore rispetto al p.m. Egli, infatti, non potrà svolgere appieno la propria attività difensiva, presentando, ad esempio -anche anticipatamente – al GIP gli elementi acquisiti a seguito dell’indagine difensiva per porlo nella condizione di meglio valutare e decidere in ordine all’eventuale richiesta del p.m. di un provvedimento cautelare.

[1] Dati del sondaggio: 60% mai; 20% talvolta; 15% mai convocate persone informate sui fatti; 5% sempre.

Finalità ed efficacia dell’indagine difensiva.

Le investigazioni del difensore hanno come ratio quella di raccogliere una serie di elementi probatori da portare a dibattimento, o comunque utilizzare all’uopo, per fare gli interessi del proprio assistito; è per tale ragione che raccoglie tutte le risultanze verbalizzate e forma il cd. fascicolo del difensore. Ma quando depositarlo, cosa scegliere di depositare? Questo è tutto rimesso alle scelte abili e accorte dell’avvocato. In questa sede possiamo, però, porre l’attenzione su una serie pratica di questioni e pronunzie giurisprudenziali, attinenti l’efficacia delle risultanze investigative e i termini entro cui farle valere, ma soprattutto il diritto del contraddittore dell’indagato/imputato a conoscere in tempo i risultati e le facoltà riconosciutegli.

Preliminarmente, quanto all’efficacia del mezzo investigativo, o ad una sua applicazione, la Corte di Cassazione sembra scongiurare, con effetto dirimente, ogni perplessità circa la “parità” con l’accusa; infatti, stabilisce che «… le dichiarazioni assunte dal difensore dell’indagato nell’ambito di attvità di investigazione difensiva hanno lo stesso valore probatorio astratto delle dichiarazioni acquisite dal p.m., salva la valutazione di attendibilità intrinseca dei dichiaranti» (Cass. pen. 17 ottobre 2007, n. 43349).

Ad esempio, per giurisprudenza ormai costante, la facoltà, riconosciuta dall’art. 391-octies del c.p.p. al difensore, di presentare direttamente all’udienza preliminare gli elementi di prova a favore del proprio assistito va esercitata prima dell’inizio della discussione, tanto risultando dal combinato disposto degli articoli 419, comma 3, e 421, comma 3, del codice di rito, da cui si evince che, durante lo svolgimento dell’udienza preliminare, vale a dire dopo l’inizio della discussione, le parti non possono chiedere l’ammissione di atti o documenti non prodotti prima.

Così com’è importante evidenziare, circa l’efficacia delle evidenze probatotie raccolte dal difensore, e nel rito premiale dell’abbreviato, sede dove esse possono esercitare maggiormente la loro forza prorompente, che il Giudice delle Leggi ha dichiarato inammissibile per formulazione ancipite il quesito che lamentava l’illegittimità degli artt. 438 e 442 cpp nella parte in cui non escludono che il difensore possa depositare il fascicolo delle indagini difensive e chiedere contestualmente giudizio abbreviato; o, in alternativa, nella parte in cui non consentono al giudice di dichiarare inutilizzabili gli atti contenuti nel fascicolo del difensore nel caso sia domandato il giudizio abbreviato; oppure, infine nella parte in cui non consentono al pubblico ministero, nel caso considerato, di chiedere l’ammissione di prova contraria (Corte Cost. 2.3.2007 n. 62).

Al riguardo si riporta l’intervento della Corte Costituzionale (ord. n. 245 del  2005), che ha fornito una lettura adeguatrice all’interprete, diretta ad evitare una ulteriore pronuncia di incostituzionalità. Ritiene il giudice delle leggi che in questi casi deve trovare attuazione il principio secondo cui a ciascuna delle parti «… va comunque assicurato il dritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte a sorpresa dalla controparte, in modo da contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio, anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto alle singole, concrete fattispecie… Così, se il deposito dei risultati dell’investigazione difensiva avviene nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero ha la possibilità di riequilibrare il “quadro probatorio” procedendo al necessario supplemento investigativo attraverso l’espletamento delle indagini previste dell’art. 419 cpp, comma 3; se, invece, i risultati dell’inchiesta difensiva vengono prodotti all’udienza preliminare, il pubblico ministero ha diritto ad un differimento dell’udienza, in modo che anche in questo caso possa svolgere le indagini suppletive, per bilanciare l’impianto accusatorio rispetto alle novità introdotte dalla difesa». In questo modo, conclude la Corte,  non viene messo in crisi il carattere fondamentale del giudizio abbreviato, che è quello che privilegia l’apporto probatorio unilaterale, rispetto al quale il pubblico ministero ha sempre la possibilità di allegare nuove indagini in replica a quelle presentate della difesa (Cass. pen. Sez. IV, 29-07-2008 n. 31683).

In tema di giudizio abbreviato, in diversa pronunzia ma stessa direzione interpretatrice, la Corte di Cassazione ha precisato che sono utilizzabili ai fini della decisione i risultati delle indagini difensive prodotti nel corso dell’udienza preliminare, salvo restando il diritto delle controparti di esercitare il contraddittorio sulle prove non oggetto di preventiva “discovery”. In applicazione di detto principio la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che, utilizzando le indagini difensive depositate contestualmente alla richiesta del rito speciale, non aveva consentito al P.M. di interloquire sulle stesse, e ha affidato al giudice del rinvio il compito di individuare lo

strumento idoneo a tal fine. (Cass. pen. Sez. III, 11-02-2009, n. 15236).

Recentemente, sempre sul punto, si è pronunziato nuovamente il Giudice delle Leggi, ritenendo che «… è infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 1-bis, c.p.p., richiamato dall’art. 556, comma 1, c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo e quarto comma, Cost.. Infatti, l’utilizzabilità, nell’ambito del giudizio abbreviato, anche degli atti di investigazione difensiva unilateralmente assunti (compresi quelli a contenuto dichiarativo) non può ritenersi lesiva del principio di parità delle parti, acquisendo valore le investigazioni del difensore solo come effetto della più generale rilevanza probatoria riconosciuta all’indagine preliminare, al pari di quelle del pubblico ministero». In questa stessa sentenza i giudici hanno fatto luce anche su un altro aspetto molto importante, legato alla natura del rito premiale, secondo cui «… la rinunzia generalizzata al contraddittorio nella formazione della prova – espressa dall’imputato con la richiesta di rito abbreviato – non opera soltanto verso i risultati delle indagini del pubblico ministero, ma anche verso quelli delle proprie. Né può configurarsi una disparità di trattamento tra il giudizio ordinario e il giudizio abbreviato, stante la non comparabilità degli istituti processuali posti a raffronto, di natura disomogenea e non assimilabili. Del pari, va esclusa una incoerenza sistematica rispetto al giudizio abbreviato condizionato, che comunque conserva una sua utilità e significato in rapporto agli elementi probatori che l’imputato non abbia potuto o voluto acquisire tramite lo svolgimento delle investigazione difensive» (Corte cost. Sent., 26-06-2009, n. 184).

Recentemente sul punto è ritornata la Corte Costituzionale (sent. n. 117/2001), rafforzando l’efficacia e la natura dello strumento investigativo, e soprattutto i risultati raccolti, statuendo che «… è inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 111 Cost., degli artt. 391- octies e 442, comma 1- bis , del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono, nell’ipotesi di deposito del fascicolo delle investigazioni difensive e richiesta di giudizio abbreviato, un termine processuale per il deposito del predetto fascicolo con la facoltà del pubblico ministero di esercitare il diritto alla controprova, con asserita violazione del contraddittorio nella formazione della prova e della «parità delle armi» da assicurare per esso. L’ordinanza di rimessione omette, infatti, di fornire taluni dati indispensabili per la verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione proposta. Per un verso, essa non riferisce se il pubblico ministero – a seguito della presentazione “a sorpresa” del fascicolo delle investigazioni difensive, della acquisizione di esso da parte del giudice e della immediata richiesta di giudizio abbreviato da parte del difensore munito di procura – abbia in effetti richiesto, senza poterlo ottenere, un termine per ricercare e dedurre prova di segno contrario, sicché il dubbio di costituzionalità è formulato in maniera del tutto astratta e senza peraltro allegare che delle norme impugnate si dovrebbe fare applicazione nella specie per disattendere una richiesta della parte pubblica. Per altro verso, l’ordinanza di rimessione nulla adduce circa i provvedimenti che, nella situazione descritta, sarebbe stato necessario distintamente e consecutivamente adottare: difetto di informazione e di motivazione, questo, incidente non solo sulla rilevanza, ma anche sulla asserita non manifesta infondatezza della questione. Infine, altri profili d’inammissibilità attengono all’oggetto della domanda del rimettente, il quale – nel richiedere addizioni alle norme impugnate, con la previsione, da una parte, di un termine per il difensore ai fini della «presentazione degli elementi di prova a favore del proprio assistito nel caso di proposizione [di richiesta] di giudizio abbreviato» e, dall’altra, della facoltà del pubblico ministero «di richiedere l’ammissione di prova contraria» – non specifica né la natura né la durata del termine che si vorrebbe vedere introdotto, né precisa in che punto della sequenza procedimentale esso si dovrebbe collocare, così avanzando un petitum obiettivamente incerto ed incompleto».

Altro momento di fondamentale importanza, per testare la forza che si riconosce agli esisti delle indagini del difensore, è sul terreno della spendibilità degli stessi in tema di misure cautelari. Vediamo quali sono i pronunciamenti dei giudici sul punto de quo.

Secondo i Supremi Giudici «… gli elementi di prova raccolti dal difensore ai sensi dell’art. 391 bis cpp sono equiparabili, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelli raccolti dal PM e, pertanto, il giudice al quale essi siano stati direttamente presentati ai sensi dell’art. 391-octies stesso codice non può limitarsi ad acquisirli, ma deve valutarli unitamente a tutte le altre risultanze del procedimento, spiegando – ove ritenga di disattenderli – le relative ragioni con adeguato apparato argomentativo» (Cass., Sez II, 30.1.2002, n. 13552). Nella sentenza, di cui si è riportata la massima, in applicazione dei principi menzionati, la Corte ha annullato con rinvio, per mancanza di motivazione, l’ordinanza di un tribunale del riesame il quale, a fronte di dichiarazioni prodotte dalla difesa a conferma di un alibi, si era limitato ad osservare che la loro effettiva attendibilità avrebbe dovuto essere verificata dall’autorità giudiziaria procedente; peraltro non osservando, opinando in quel modo, i limiti e i poteri propri del cd. Tribunale delle Libertà.

Si segnala che, nonostante il precedente indirizzo, corroborato da una serie di pronucie secondo cui «… il magistrato inquirente deve trasmettere tutti gli elementi raccolti in favore dell’indagato, ivi inclusi quelli depositati presso il suo ufficio dal difensore» (ex pluribus, Cass. sez. I, 23.11.2005, n. 5463), per altra parte della giurisprudenza, specie di merito, è stato ritenuto che l’omessa trasmissione al Tribunale della Libertà di atti investigativi della difesa da parte del PM non comporta l’inefficacia della misura cautelare adottata. E invero, posto che la ragione giustificatrice della sanzione prevista dall’articolo 309 c.p.p. risiede nella finalità di evitare che l’accusa, deputata alla selezione degli atti da trasmettere, impedisca al tribunale del riesame una valutazione dell’intero materiale investigativo incidente sulla posizione cautelare della persona indagata, può ragionevolmente escludersi che siffatto pericolo sussista con riguardo alle risultanze dell’investigazione difensiva, trattandosi di atti che la stessa parte ha formato e di cui è sin dall’inizio a perfetta conoscenza. Alla stessa parte, peraltro, è espressamente riconosciuta dall’articolo 391-octies, comma 3, prima parte, del cpp, la possibilità di conservare la documentazione formata in originale e di presentare direttamente al giudice (dunque al tribunale del riesame) gli elementi di prova a favore del proprio assistito mediante deposito in cancelleria o alla stessa udienza (In questo senso da ultimo Cass. pen. sent. n. 10276/2010).

In conclusione, quindi, deve osservarsi che un’interpretazione dell’articolo 309, comma 5 del c.p.p., ispirata a criteri sostanziali, suggerisca di ritenere che gli “elementi

favorevoli” ivi richiamati siano quelli nella disponibilità esclusiva del PM, che la parte non poteva tempestivamente conoscere e presentare al giudice dell’impugnazione, posto che altrimenti la disciplina codicistica risulterebbe del tutto irrazionale e foriera di ingiustificate disparità di trattamento.

Conclusioni

 

Il giurista, oggi, dispone di una rinnovata disciplina delle indagini difensive, emanata in abrogazione dell’art. 38 disp. att. c.p.p., e portatrice di rilevanti modifiche normative.

Con la legge 7 dicembre 2000, n. 397, il legislatore ha inteso attuare i principi della parità e del contraddittorio tra le parti, della ragionevolezza dei tempi e della terzietà del giudice, in altre parole ha voluto realizzare il c.d. “giusto processo” del novellato Art. 111 Cost.

Da una prima lettura della normativa si può affermare che l’auspicata equiparazione tra poteri investigativi del Pubblico Ministero e quelli del difensore sia stata, tendenzialmente e con i limiti ut supra segalati, formalizzata; a testimonio vi sono: il nuovo titolo VI bis, “Investigazioni difensive”, nel libro V del codice di rito; l’introduzione dell’art. 327 bis c.p.p., “Attività investigativa del difensore”, subito dopo gli artt. 326 e 327 contenenti i principi generali sulla direzione e lo scopo delle indagini preliminari; e la codificazione del delitto di “False dichiarazioni al difensore” all’art. 371 ter, sosia di quello di “False informazioni al pubblico ministero” ex art. 371 bis.

In particolare, dal complesso degli artt. 391 bis-decies contenuti nel nuovo titolo VI bis emerge che il difensore dispone di tre poteri: quello di conferire, ricevere dichiarazioni o assumere informazioni da persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa; quello di richiedere documenti in possesso della Pubblica Amministrazione; quello di accedere ai luoghi anche privati o non aperti al pubblico, per procedere alla loro descrizione o per eseguire rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi.

Vi è stato, dunque, un considerevole ma non soddisfacente passo in avanti rispetto alla disciplina dell’abrogato art. 38 disp. att. c.p.p., il quale prevedeva una generica facoltà di svolgere investigazioni in favore dell’assistito.

Con riguardo al primo dei tre poteri, fra gli altri obblighi l’avvocato ha anche quello di avvertire la persona “della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione” [v. art. 391 bis, comma 3, lett. d), c.p.p.], pena l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ricevute. Se la persona si avvale di questa facoltà, il difensore può chiedere al P.M. di disporne l’audizione o di procedere per incidente probatorio [v. art. 391 bis, comma 10 e 11, c.p.p.], con l’inconveniente che in tali sedi, data la presenza del magistrato, vi sarà un’inevitabile discovery delle indagini difensive.

Questa sostanziale disparità di poteri tra “pubblica accusa” e “privata difesa”, tuttavia, non è facilmente eliminabile, poiché la coartazione si fonda sulla natura pubblicistica dell’organo procedente, portatore dell’interesse pubblico sovra-ordinato a quello privato. Semmai, si poteva evitare di obbligare l’avvocato ad avvertire la persona del diritto di tacere, come accade nel modello statunitense, in cui vi è la consapevolezza che la difesa è la parte debole e che la cross-examination è lo strumento più idoneo ad individuare eventuali affermazioni false del teste.

Con riguardo agli altri due poteri del difensore, bisogna dar conto che, mentre per ottenere la documentazione dalla Pubblica Amministrazione retinente egli deve presentare apposita istanza al p.m. [v. artt. 391 quater, 367 e 368 c.p.p.], l’accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico, in caso di dissenso di chi ne ha la disponibilità, deve essere autorizzato dal giudice [v. art. 391 septies c.p.p.].

Una fattispecie normativa inopportuna è quella disciplinata dall’art. 391 quinquies: esso prevede che «se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza, per un periodo non superiore ai due mesi».

Questa disposizione viaggia inequivocabilmente in direzione opposta alla parità di poteri investigativi: la locuzione “specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine” è estremamente generica e portatrice di possibili abusi; inoltre, anche se la norma può essere interpretata nel senso che i soggetti “segretabili” sono sia quelli sentiti dal p.m. che quelli sentiti dal difensore, non ci si può attendere che il magistrato intervenga quando le esigenze investigative da tutelare appartengano esclusivamente alla difesa.

La nuova disciplina finalmente affronta il problema che più volte la giurisprudenza aveva evidenziato, vale a dire l’assenza di forme di documentazione dell’attività d’indagine: per acquisire valenza probatoria in giudizio, le dichiarazioni devono essere sottoscritte dall’informatore ed accompagnate da una relazione attestante gli avvertimenti richiesti dalla legge, mentre le attività svolte durante l’accesso devono essere inserite in un verbale.

Prima della conclusione delle indagini preliminari, la documentazione viene inserita nel fascicolo del difensore che è formato e conservato presso il giudice per le indagini preliminari; successivamente, ferma restando la possibilità di presentare direttamente gli elementi di prova in udienza preliminare, il fascicolo del difensore è inserito in quello del p.m. e, con l’accordo delle parti, è anche possibile l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento [v. artt. 391 octies e 431 ult. com., c.p.p.].

Ciò significa che le investigazioni difensive, almeno sulla carta, non sono più lettera morta: mentre sotto il rigore dell’abrogato art. 38 disp. att. c.p.p. l’acquisizione delle prove doveva essere sollecitata al p.m., unico organo incaricato della raccolta e del vaglio dei dati riguardanti fatti di possibile rilevanza penale, la nuova disciplina permette che tale attività possa essere svolta anche dal difensore.

Sotto questo profilo la normativa merita una valutazione positiva perché, elevando le indagini difensive a veri e propri atti del procedimento, assicura l’inserimento nel solco della parità tra accusa e difesa in relazione alla loro utilizzabilità.

Dalla disamina fin qui svolta, a parte le eccezioni su esposte, sembra potersi affermare che le resistenze “dure a morire”, alla realizzazione della par condicio tra accusa e difesa, sono le persistenti riserve mentali degli operatori del settore.

La giurisprudenza della Suprema Corte, in vero, ha spesso seguito le modifiche legislative, ed alcune volte le ha precedute: Cass., sez. I, 31-01-1994, era ancora dell’idea che «… le indagini difensive possono essere finalizzate alla sollecitazione dell’attività investigativa del p.m. ovvero alla richiesta di incidente probatorio, mentre è esclusa una loro diretta utilizzabilità per le decisioni del giudice; tale interpretazione è confermata dal tenore letterale dell’art. 38 att. c.p.p. oltre che dalla ratio del sistema processuale che, attraverso l’art. 348 c.p.p., attribuisce esclusivamente alla polizia giudiziaria il compito di procedere all’assicurazione delle fonti di prova, e, attraverso l’art. 358 c.p.p., attribuisce esclusivamente al p.m. il compito di compiere ogni attività necessaria ai fini dell’esercizio dell’azione penale e di svolgere accertamenti su fatti o circostanze a favore dell’indagato»; mentre già Cass., sez. VI, 16-10-1997, precedente alla novella, statuisce che «… il risultato delle indagini difensive è utilizzabile allo stesso modo di quello degli atti di indagine compiuti dal p.m.».

Purtroppo, non si può dire la stessa cosa della giurisprudenza di merito che rimane persuasa della mancanza di attendibilità del difensore, poiché quest’ultimo tenderebbe all’affermazione delle proprie ragioni, e non all’accertamento della verità.

Sembra sempre vivida quell’affermazione del Manzini, cinquant’anni or sono, secondo cui «nella nostra magistratura è assai diffusa l’opinione che sia cosa scorretta e peggio, per il difensore, eseguire ricerche istruttorie per proprio conto. Quest’attività invece, quando è svolta onestamente, non solo va esente da qualunque censura, ma può anzi considerarsi come doverosa. Per poter indicare al giudice istruttore o portare al dibattimento elementi di prova utili per l’imputato, è evidentemente necessario ricercarli, e però non si può impedire al difensore siffatte ricerche» (in Trattato di diritto processuale penale, VI ed. II, 1968, p. 552-3).

Altro ostacolo all’attività investigativa, inoltre, è proprio l’avvocatura: la mancanza, fino a qualche anno fa, di un’esaustiva disciplina sui poteri investigativi; la permanenza degli indubbi rischi legati al favoreggiamento; la carenza di risorse economiche e il persistere dell’indisponibilità, al contrario dell’Accusa, dei mezzi dello Stato nel compimento delle indagini; non da ultimo l’orgoglio e la fierezza del difensore nel non abbandonare la sua vecchia veste; sono tuttora sufficienti a scoraggiare l’avvocato dal compiere le indagini difensive per il proprio assistito.

Nella società odierna, poi, è assente una cultura dell’investigatore privato: ciò implica che spesso la gente nutre riserve mentali sugli effettivi poteri dell’avvocato ed ingenera la comune ed inspiegabile paura di commettere reato nel rilasciare dichiarazioni a chi non appare legittimato a farlo.

In ultima analisi, si auspica più impegno in capo agli avvocati nell’effettuare le indagini difensive e maggiore apertura della magistratura nel riconoscere a tale attività il dovuto valore; pur riconoscendo i grandi passi fatti dalla giurisprudenza di legittimità. Solo così facendo e col decorso del tempo si riuscirà a stabilire anche in Italia l’effettivo “right to private investigation”.

Sembra, in effetti, sempre attuale quanto tempo addietro ebbe a dire il Maestro Carnelutti: «Il fatto è che il processo, tra tutte le grandi istituzioni giuridiche elaborate nei secoli dall’uomo, è quella che più resiste alle norme ed ubbidisce al retaggio della tradizione».

a cura dell’Avv. Mario D’Amato

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